mercoledì 18 giugno 2014

giovedì 12 giugno 2014

Shostakovic, Shakespeare e Abbado

Paolo Petazzi, Trionfo per il direttore a Ferrara, tornato per la prima volta sul podio dopo il congedo dai Berliner. In programma uno Shostakovic inedito (per l'Italia) e «Tristia» di Berlioz. Un grande Abbado alla corte di Re Lear. In nome della pace, ne <<L’Unità>>, 17 febbraio 2003


Proponeva un messaggio di pace […] il bellissimo concerto diretto sabato da Claudio Abbado per Ferrara Musica. Era il suo primo ritorno sul podio dopo il congedo dai Berliner […] ed era l'apertura delle manifestazioni ferraresi dedicate a «Shakespeare e le arti» (tema di uno dei grandi cicli che Abbado aveva promosso e organizzato a Berlino negli anni scorsi), con Tristia di Berlioz e le rarissime musiche di Shostakovic per Re Lear, finora mai eseguite in Italia. Di rilievo davvero memorabile è parsa la forza rivelatrice della interpretazione dei tre pezzi per coro e orchestra che Berlioz compose nel 1831 (Méditation religieuse, su versi di Th. Moore), nel 1842 (La mort d'Ophélie) e nel 1844 (Marche funèbre pour la dernière scène d'Hamlet) […]: soprattutto il secondo e il terzo sono esempi affascinanti di un carattere essenziale della fantasia di Berlioz, della sua capacità di accendersi con intensità visionaria nella evocazione di un grande personaggio della letteratura. Un personaggio, una situazione, non necessariamente un testo: nella «sinfonia drammatica» ispirata a Romeo e Giulietta le scene fondamentali della tragedia sono raccontate dalla sola orchestra, e i pezzi raccolti in Tristia culminano nella marcia funebre per Amleto, dove al coro sono affidate soltanto dolorose esclamazioni, senza testo […] La disperazione assoluta, la grandiosa visionaria tensione tragica di questa marcia funebre sono state esaltate da Abbado con una intensità insostenibile [...] Non meno ammirevole la poetica delicatezza rivelata nella interpretazione degli altri due pezzi di Berlioz e la magnifica valorizzazione delle musiche di Shostakovic per Re Lear. Il compositore le scrisse in due diverse occasioni, sempre collaborando con il regista Grigorij Kozincev, nel 1941 per un allestimento della tragedia in teatro, nel 1970 per un film. Shostakovic non rifiutava di farsi condizionare da una specifica destinazione, dai tempi e dalle esigenze teatrali o filmiche […] La qualità di queste musiche ne rende auspicabile una diffusione maggiore di quella che sarebbe possibile rispettandone la collocazione ideale nei contesti originari: a Ferrara, come in precedenza a Berlino, sono stati mescolati pezzi per la scena e per il film, e sono stati eseguiti mentre venivano proiettate alcune parti del film di Kozincev […] con grande forza evocativa, suggerendo efficacemente l'unità di intenti di Kozincev e Shostakovic, e la loro comune visione del Re Lear […] Nella musica si ascoltano accenti di scabra violenza, di feroce o amaro umorismo o di dolorosa grandezza che Abbado ha esaltato con una incisiva forza che non si riesce ad immaginare più intensa. Splendida la collaborazione dei già ricordati cori svedesi, della stupenda Mahler Chamber Orchestra e dei solisti […] Successo trionfale.

Ruzante, Parlamento


Parlamento de Ruzante che ier vegnú de campo,  Scena terza
Ruzante? Sei tu? Sei vivo ancora? Sei così stracciato, hai una tal brutta cera... Non hai guadagnato niente, vero o no?
Ruz.    Ma non ho guadagnato assai per te, se ti ho portato la carcassa viva?
Gn.      Oh, la carcassa! Mi hai ben pasciuta. Vorrei che tu mi avessi preso qualche gonnella per me.
Ruz.    Ma non è meglio che sia tornato sano di ogni membro, così come sono?
Gn.      Ma sì! Vorrei che tu mi avessi preso qualcosa. Su, ora voglio andare, ché sono aspettata.
Ruz.    Ma hai proprio una gran fretta! Aspetta un po'.
Gn.      Ma che vuoi che faccia qui, se non hai niente da fare con me? Lasciami andare.
Ruz.    Oh, canchero a quanto amore ti ho mai portato! Ti vuoi subito andare a imbucare, e non pensi che io sono venuto dal campo apposta per vederti.
Gn.      E ora non mi hai veduta? Non vorrei, a dirti il vero, che tu mi rovinassi, ché ho uno che mi fa del bene, io. Non si trovano mica ogni giorno di queste fortune.
Ruz.    Poh, ti fa del bene! Te l'ho pur fatto anch'io. Non ti ho mai fatto del male, come sai. Quello non ti vuole certo tanto bene come ti voglio io.
Gn.      Ruzante, sai chi mi vuol bene? Chi me lo mostra.
Ruz.    Ma sì, come se io non te l'avessi mai mostrato...
Gn.      Che mi fa che tu me l'abbia mostrato, e che non me lo possa mostrare adesso? Perché adesso ne ho anche bisogno. Non sai che ogni giorno si mangia? Se mi bastasse un pasto all'anno, potresti parlare. Ma bisogna che mangi ogni giorno, e perciò bisognerebbe che tu me lo potessi mostrare anche adesso, perché adesso ne ho bisogno.
Ruz.    Oh, ma si deve pur fare differenza tra uomo e uomo. Io, come sai, sono uomo dabbene e uomo compito...
Gn.      Sicura che la faccio! Ma c'è anche differenza tra star bene e star male. Senti, Ruzante: se io sapessi che tu mi puoi mantenere - che mi fa a me? - ti vorrei bene, io, intendi? Ma quando penso che sei un poveruomo, io non ti posso vedere. Non che voglia male a te, ma voglio male alla tua disgrazia; ché ti vorrei vedere ricco, io, acciò che stessimo bene, io e te.
Ruz. Ma se sono povero, sono almeno leale...
Gn.    E che me ne faccio, io, delle tue lealtà, se non me le puoi mostrare? Che vuoi darmi? Qualche pidocchio, forse?
Ruz.    Ma sai pure che, se avessi, ti darei, come ti ho già dato. Vuoi che vada a rubare e a farmi impiccare? Mi consiglieresti così?
Gn.      E tu vuoi che viva d'aria, e stia qua a sperare in te, e che muoia all'ospedale? Non sei mica un buon compagno, in fede mia, Ruzante! Mi consiglieresti così, tu?
Ruz.    Ma io ho una gran passione per te, io spasimo. Ma non hai pietà?
Gn.      E io ho invece una gran paura di morire di fame, e tu non ci pensi. Ma non hai coscienza? Ci vuol altro che vendere radicchio o borragine! Come faccio, in fede mia, a vivere?
Ruz.    Ma se tu mi abbandoni, morirò d'amore. Muoio, ti dico che spasimo...
Gn.      E a me l'amore m'è andato via, per te, pensando che non hai guadagnato come dicevi.
Ruz.    Hai ben paura che [la roba] ci manchi. Non manca mai, [se si va] a rubare...
Gn.      Eh sì, hai proprio un gran cuore, e triste gambe. Non vedo niente, io.
Ruz.    Ma sono appena arrivato qui...
Gn.      Ma sono pur quattro mesi che tu partisti.
Ruz.    E sono anche quattro mesi che non ti ho dato fastidio.
Gn.      Ma non è mica abbastanza questo che mi dài adesso, a vederti così miserabile? E poi sempre ne ho avuto, perché me lo immaginavo, io, che sarebbe andata così, che saresti tornato furfante.
Ruz.    Ma è stato per mia disgrazia...
Gn.      E portane anche la penitenza, tu. Vuoi che la porti io, vero, compagnone? Ti sembrerebbe giusto? Credo proprio di no.
Ruz.    Ma non ne ho già colpa io...
Gn.      Ma sì, l'ho io, Ruzante! Chi non si mette a rischio, non guadagna. Io non credo che tu ti sia cacciato troppo avanti per guadagnare; ché ti si vedrebbe pure qualche segno. Se Dio m'aiuta, [giurerei che] tu non sei nemmeno stato al campo. Tu sei stato in qualche ospedale. Non vedi che hai fatto la cera del furfante?
Men.    Vedete, compare, se è come vi dico io? Poi dite voi di [non] avere il viso tagliato o sfregiato. Non sarebbe stato meglio per voi? Così lei crederebbe che foste stato soldato e valoroso.
Gn.      Compare, vorrei piuttosto che avesse perso un braccio o una gamba, o [che gli fosse stato] cavato un occhio, o tagliato il naso, e che si vedesse che fosse stato avanti da valentuomo, e che l'avesse fatto per guadagnare, o per amore mio - intendete, compare? Non che io lo faccia, compare - intendete? - per la roba; ché a me [la roba] - intendete? - non può mancare. Ma perché pare che lui abbia fatto poco conto di me, che sia stato poltrone e si sia portato da poltrone, intendete? Mi promise di guadagnare o di morire, e invece è tornato come vedete. Non che io volessi, compare, che avesse del male. Ma chi crederebbe che fosse stato al campo?
Men.    V'intendo, comare. In nome di Dio, avete ragione. Glielo ho detto anch'io. Voi vorreste un segno che fosse stato avanti: almeno, così, una graffiatura...
Gn.      Sì, che potesse dire e mostrarmi: "Ho questa per amor tuo".
Ruz.    Oh, in malora la roba e chi mai la fece!
Gn.      Oh, in malora i dappoco e i traditori senza fede! Che mi avevi promesso?
Ruz.    Ti dico che sono stato disgraziato.
Gn.      Ora sì, Dio m'aiuti, che dici il vero. E io ora, che sto bene e che non sono disgraziata, per non diventare disgraziata, non voglio più impicciarmi con te. E fa' i fatti tuoi, che io farò i miei... Oh, peste! Vedi appunto il mio uomo. Lasciami andare.
Ruz.    Me ne infischio del tuo uomo! Non conosco altro tuo uomo al mondo che me.
Gn.      Lasciami andare, disgraziato, buono a niente, furfante, pidocchioso!
Ruz.    Vieni con me, ti dico che mi farai... Non mi fare infuriare! Tu non mi conosci: non sono più [tipo] da lasciarmi menare per il naso, come facevi.
Men.    Comare, andate via, che non vi ammazzerà.

Gn.      Vada a ammazzare i pidocchi che ha addosso!

mercoledì 11 giugno 2014

Ucraina, I

Bernard GuettaIl disgelo ucraino

9 giugno 2014
Ancora non c’è nulla di certo. Il diavolo, si sa, è nei dettagli, e basterebbe un improvviso incidente di percorso a far saltare tutto. Per il momento, però, possiamo sperare in un’evoluzione positiva della crisi ucraina.
L’ottimismo è giustificato principalmente perché Vladimir Putin ha accettato di incontrarsi con il nuovo presidente ucraino a margine delle cerimonie per il settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia. Il presidente russo ha definito “corretto nell’insieme” l’approccio di Petro Porošenko, mentre nella giornata di domenica il presidente ucraino ha ricevuto a Kiev l’ambasciatore russo e ha annunciato l’avvio di un negoziato tra i due paesi (al ritmo di una seduta al giorno) con l’obiettivo di fermare gli scontri armati in Ucraina orientale entro il prossimo fine settimana.
Il disgelo si deve in buona parte all’opera di François Hollande e della diplomazia francese, che non ha mai voluto interrompere i contatti con la Russia sperando di potersi presentare come intermediaria appena possibile. È per questo che Parigi ha confermato l’invito a Putin per l’anniversario dello sbarco, e il presidente Hollande ha ricordato il ruolo dell’Unione Sovietica nella sconfitta del nazismo. Era anche per questo, e non solo per ragioni commerciali, che la Francia si era rifiutata di annullare la vendita di due navi da guerra a Mosca. E per lo stesso motivo la sera del 5 giugno Hollande ha ricevuto Putin per una cena all’Eliseo, sorprendendo perfino lo stesso presidente russo.
Durante la cena, preparata da intensi contatti diplomatici, è avvenuto l’incontro tra Putin e Porošenko, invitato alle celebrazioni nonostante non abbia ancora cominciato il suo mandato. A prescindere dai meriti della Francia, è evidente che questa svolta distensiva non sarebbe stata possibile se Kiev e Mosca non l’avessero considerata la migliore soluzione possibile.
Il presidente ucraino deve trovare un compromesso duraturo con la Russia, anche perché in caso contrario il Cremlino potrebbe tranquillamente continuare a destabilizzare il suo paese. Il presidente russo, dal canto suo, ha tutto l’interesse a calmare le acque, perché le sanzioni occidentali stanno strangolando la sua economia, perché l’annessione della Crimea è ormai un fatto compiuto e soprattutto perché annettere anche l’Ucraina orientale comporterebbe danni diplomatici ed economici incalcolabili. In poche parole Mosca ha tutte le ragioni per aprire un dialogo con Kiev.
In questo senso non bisogna tralasciare il fatto che Porošenko ha smesso di parlare di un’adesione del suo paese alla Nato, concentrandosi sulla possibilità di firmare un trattato internazionale che garantisca la sicurezza dell’Ucraina. Inoltre, il ministro degli esteri francese Laurent Fabius ha appena dichiarato pubblicamente che l’adesione dell’Ucraina all’Unione europea non è assolutamente all’ordine del giorno, e per il momento il paese deve cercare di diventare un ponte tra le due Europe. Putin doveva già essere al corrente di queste posizioni, ma per lui è stato importante che siano state esplicitate.
(Traduzione di Andrea Sparacino)

[Fonte: http://www.internazionale.it/opinioni/bernard-guetta/2014/06/09/il-disgelo-ucraino/ ]

Foscolo. Due sonetti

Foscolo, I


Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

________________________



Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentili anni caduto.

La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.


Catullo (CI)

Multas per gentes et multa per aequora vectus
Adevnio has miseras, frater, ad inferias,
Ut te postremo donarem munere mortis
Et mutam nequicquam adloquerer cinerem,
Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
Heu miser indigne frater adempte mihi.
Nunc tamen interea haec prisco quae more parentium
Tradita sunt tristi munere ad inferias,
Accipe fraterno multum manantia fletu,
Atque in perpetuum, frater, ave atque vale.

Monet

La maison de Monet

Claude Monet est un peintre très célèbre. Il est né en 1840 à Paris.  On dit qu’il est le chef de l’école impressionniste. C’est lui qui a peint en 1872 « Impression soleil levant », c’est un paysage du Havre (Le Havre est une ville située au nord de la France). Le titre de ce tableau est à l’origine du mot  « impressionnisme ». 
Claude Monet a habité à Giverny, une ville située en Normandie. Il a vécu dans une maison rose très jolie à partir de 1883 et il y est resté jusqu’à sa mort, enMonet2_21926. Cette maison est devenue le musée Claude Monet.
Elle est comme autrefois parce qu’on l’a restaurée. Dans la maison, on peut voir la chambre, la cuisine ou la salle à manger de Monet. Tout est resté comme avant. On peut aussi voir sa collection de peintures japonaises. On appelle ces peintures des estampes. Autrefois, tous les impressionnistes avaient des estampes. Dans cette maison, on a gardé une très belle collection.
À côté de la maison, on peut voir deux ravissants jardins. Ces jardins ont beaucoup de charme. Dans le jardin d’eau, on peut voir le fameux pont japonais. On voit ce pont dans les tableaux « les Nymphéas ». Les arbres, la petite rivière, tout est resté semblable aux peintures de Monet.
Monet3_1Il y a un autre jardin près de la maison. On peut y admirer des fleurs et des arbres magnifiques. Si vous voulez vous promener dans un décor merveilleux, il faut y aller en automne ou au printemps. Le musée et les jardins sont ouverts du premier avril au 31 octobre. C’est ouvert de 9h30 à 18h tous les jours sauf le lundi. La visite du musée et des jardins dure environ une heure ou deux. Pour plus d’informations, vous pouvez aller sur le site du musée. Je vous donne l’adresse :www.fondation-monet.com. Vous pouvez aussi téléphoner directement. Voici le numéro de téléphone : 02 32 51 28 21.


[Fonte: http://www.podcastfrancaisfacile.com/podcast/2007/02/la_maison_de_mo.html ] 

martedì 10 giugno 2014

I diritti. Una cronologia dal 1789 al 2006

1789 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino in Francia.

La Dichiarazione definisce i diritti naturali che sono inalienabili e sacrosanti. Il più prezioso di tali diritti è la libertà:
Articolo 1) Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti.
Articolo 2) Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione.  
Articolo 3) Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa. La Francia e gli Stati Uniti sono tra i primi paesi ad inserire i diritti umani nelle loro costituzioni. In breve tempo, molti paesi seguono il loro esempio. I diritti menzionati nelle costituzioni nazionali si moltiplicano. Nel diciottesimo secolo, la maggior parte dei diritti umani mirano  a proteggere gli individui dal potere statale. Tali diritti umani vengono definiti diritti politici.

1791 La Francia concede la cittadinanza agli ebrei
Poco dopo seguono i Paesi Bassi (nel1796), la Prussia (nel 1812), la Danimarca (nel 1814), la Grecia (nel 1830); il Belgio (nel 1831), l’Ungheria (nel 1867), la Svezia (nel 1870), e la Svizzera (nel 1874).

1807 Il parlamento britannico adotta la legge sull’abolizione della tratta degli schiavi.

1907 La Norvegia è il primo paese europeo a riconoscere il diritto di voto alle donne.

1919 Firma del Trattato di Versailles dopo la Prima Guerra Mondiale
Per la prima volta la comunità internazionale considera capi di stato responsabili per violazioni di diritti umani. Altri trattati della Conferenza di Parigi sottolineano i diritti delle minoranze.

1920 Costituzione della Lega delle Nazioni
Al fine di prevenire la guerra attraverso il dialogo internazionale. La nuova istituzione, tuttavia, non riesce nel suo intento perché paesi influenti (come gli Stati Uniti) decidono di non partecipare. La lega delle Nazioni è sostituita dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1945−46.

1945 Istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)
Il compito dell’O.N.U. è il mantenimento della pace e della sicurezza nel mondo e la promozione della cooperazione economica, sociale, culturale, e umanitaria. Più di 185 nazioni hanno aderito alle Nazioni Unite. Maggiori informazioni sono disponibili all’indirizzo: www.un.org/.

1946 In Germania, si tiene il Processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti. I capi d’imputazione contro gli accusati sono: (1) crimini contro la pace; (2) crimini di guerra; (3) crimini contro l’umanità; e (4) cospirazione per commettere i crimini menzionati.

1948 Firma della Dichiarazione universale dei diritti umani (UDHR)
La Seconda Guerra Mondiale aveva così profondamente scosso la coscienza umana che l’Assemblea dell’ONU adottò la Dichiarazione universale dei diritti umani e il diritto all’autodeterminazione delle popolazioni coloniali. La Dichiarazione rappresenta la prima espressione che estendeva i diritti fondamentali a tutto il genere umano. Il documento consta di 30 articoli e ha ispirato numerosi documenti successivi. I suoi contenuti sono stati sviluppati in successivi trattati internazionali, strumenti regionali per i diritti umani, costituzioni e leggi nazionali. La Dichiarazione non è vincolante, ma fu adottata per definire il significato delle espressioni “libertà fondamentali” e “diritti umani” che compaiono nella Carta delle Nazioni Unite. La Carta è vincolante per tutti gli Stati membri. Il testo completo è disponibile all’indirizzo: www.un.org/en/documents/udhr/.

1948 Adozione della Convenzione ONU per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio
La Convenzione è entrata in vigore nel gennaio 1951. È uno strumento internazionale di vasta portata e giuridicamente vincolante per la punizione del crimine di genocidio. I paesi partecipanti sono tenuti a prevenire e a punire gli atti di genocidio in tempo di guerra e di pace. Nel 2010 erano 140 i paesi che hanno ratificato la Convenzione, il cui testo integrale è disponibile all’indirizzo: www2.ohchr.org/english/law/genocide.htm.

1949 Istituzione del Consiglio d’Europa
Il Consiglio d’Europa, con sede a Strasburgo (Francia), è stato fondato il 5 maggio 1949 da dieci paesi, con lo scopo di sviluppare in tutta l’Europa principi comuni e democratici che assicurino il rispetto dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto. Nel 2010, il Consiglio d’Europa contava 47 Stati membri. Ulteriori informazioni sono disponibili all’indirizzo: www.coe.int/.

1950 Adozione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)
La Convenzione è derivata dalla Dichiarazione universale dei diritti umani ed è entrata in vigore nel 1953. Ne sono firmatari tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Diversamente dalla Dichiarazione universale, la CEDU è un trattato giuridicamente vincolante. La Corte europea dei diritti umani, che ha sede a Strasburgo, controlla che la Convenzione venga rispettata. Le presunte violazioni possono essere portate dinanzi alla Corte dagli Stati o dai cittadini. Il testo completo è disponibile all’indirizzo: www.conventions.coe.int/Treaty/en/treaties/html/005.htm.

1965 Adozione della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale.
È entrata in vigore nel 1969. Gli Stati membri della Convenzione si impegnano a eliminare la discriminazione razziale. La Convenzione prevede un meccanismo di ricorso individuale che ne aumenta l’efficacia rendendone l’applicazione obbligatoria per gli Stati contraenti. Questo ha prodotto una limitata giurisprudenza sull’interpretazione e sull’applicazione della Convenzione. L’applicazione della Convenzione è monitorata dal Comitato sull’eliminazione della discriminazione razziale. Nel 2010 contava 173 parti contraenti. Il testo completo è disponibile all’indirizzo: www2.ohchr.org/english/law/cerd.htm.

1966 Adozione del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali
Entrambi i patti sono entrati in vigore nel 1976. Il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici impegna le parti a rispettare i diritti civili e politici degli individui, compresi il diritto alla vita, la libertà di religione, di espressione, di riunione, i diritti elettorali e i diritti al giusto processo e al legittimo giudizio. Il testo completo è disponibile all’indirizzo: www2.ohchr.org/english/law/ccpr.htm. Il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali impegna le parti a operare al fine di garantire agli individui i diritti economici, sociali e culturali, compresi i diritti al lavoro, alla salute, all’istruzione e a un livello di vita adeguato. Il testo completo è disponibile ll’indirizzo: www2.ohchr.org/english/law/cescr.htm.

1989 Adozione della Convenzione sui diritti dell’infanzia dell’ONU
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione il 20 novembre 1989, ossia 30 anni dopo la Dichiarazione dei diritti del fanciullo. La Convenzione internazionale, entrata in vigore nel 1990, stabilisce i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali dei bambini. I paesi che l’hanno ratificata sono vincolati dal diritto internazionale Il rispetto della Convenzione è monitorato dal Comitato sui diritti dei bambini delle Nazioni Unite, che è composto da rappresentanti di molti paesi del mondo. Nel 2010, solo la Somalia e gli Stati Uniti non avevano ancora ratificato la Convenzione, il cui testo completo è disponibile all’indirizzo: www2.ohchr.org/english/law/crc.htm.

1990 Adozione della Convenzione dell’ONU per la protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie
La Convenzione è entrata in vigore nel 2003. Il testo completo è disponibile all’indirizzo: www2.ohchr.org/english/law/cmw.htm.

1998 Adozione dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale
Lo Statuto (spesso denominato Statuto della Corte penale internazionale o Statuto di Roma) è il trattato che ha istituito la Corte penale internazionale (CPI). È stato adottato durante una conferenza diplomatica tenutasi a Roma il 17 luglio 1998 ed è entrato in vigore nel 2002. Nel 2010, gli Stati parti dello Statuto erano 111.

2000 Proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
La Carta è divenuta giuridicamente vincolante con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel dicembre 2009. I suoi 54 articoli, suddivisi in sei titoli - Dignità, Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza e Giustizia –sanciscono i valori fondamentali dell’Unione europea e i diritti civili, politici, economici e sociali dei cittadini dell’UE. Il testo completo è disponibile all’indirizzo: www.eucharter.org/.

2002 Stabilimento della Corte penale internazionale all’Aia, Paesi Bassi
Questa corte dell’ONU è un’istituzione permanente per processare i crimini di guerra e sostituisce le corti ad-hoc per il Ruanda e per la ex-Jugoslavia.

2006 Adozione della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (CRPD)
Scopo della Convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità. La CRPD è entrata in vigore nel 2008. Nel 2010, l’avevano ratificata 87 paesi. Il testo completo è disponibile all’indirizzo: www.un.org/disabilities/convention/conventionfull.shtml.


Anna Foa e Natalia Ginzburg

Lessico famigliare mi ha sempre perseguitato”, Anna Foa racconta Natalia Ginzburg
A cinquant'anni del premio Strega, la storica ricorda come quel libro abbia raccontato la vita della sua famiglia e come la scrittrice si sia convertita al cattolicesimo

“Pretenziosa e sarcastica”: è con questi due aggettivi che in Lessico famigliare Natalia Ginzburg la immortala. Allora Anna Foa era solo una bambina, oggi è una storica affermata (di recente ha pubblicato per Laterza Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43). Ma già a quel tempo Anna – racconta la Ginzburg – discuteva con la madre di “Gesù e Stalin”.
In quel romanzo, che cinquant’anni fa vinse il premio Strega, c’è tutto il mondo dell’infanzia della figlia del politico, giornalista e scrittore Vittorio Foa: l’antifascismo, la cospirazione, le amicizie, i litigi, gli amori. E rimane fondamentale, soprattutto perché – spiega a Donneuropa la professoressa Foa – ha “raccontato l’unica aristocrazia intellettuale italiana, contribuendo alla sua mitizzazione”.

Che effetto fa ritrovarsi in un romanzo che è entrato nella storia della letteratura italiana?
Lessico famigliare mi ha sempre perseguitato. Quando uscì, un giovane professore del mio liceo classico lo lesse e cominciò a prendermi in giro in classe, apostrofandomi con i due aggettivi con i quali mi descriveva la Ginzburg, “pretenziosa e sarcastica”. Natalia mi aveva conosciuta quando ero piccolissima. Lei era molto amica sia di mia madre sia di mio padre, con il quale però il rapporto si consolidò successivamente.

Con sua madre, Lisa Giuia, com’era nata l’amicizia?
Era nata dalla comune adesione agli ideali dell’antifascismo e della Resistenza. Il gruppo di Giustizia e Libertà di Torino era stato in gran parte imprigionato. Il marito di Natalia, Leone Ginzburg, fu mandato al confino, dove Natalia lo seguì. Mia madre invece la Resistenza l’aveva fatta in prima persona. Lei e Natalia si vedevano e si frequentavano, come viene raccontato in Lessico famigliare.

La narrazione nel romanzo corrisponde ai suoi ricordi?
Gli episodi che Natalia racconta sono probabilmente veri, ed è sicuramente vero quello che dice della mia famiglia: per quanto posso testimoniare e ricordare, le cose stavano proprio così. Per esempio il ritratto che fa di mia madre corrisponde esattamente alla realtà. Certo, è possibile che io ricordi quel tempo attraverso il filtro di Lessico famigliare. Però credo che Natalia abbia rielaborato in maniera molto fedele, anche se con un linguaggio proprio, la vita di un intero mondo intellettuale e politico.

Invece il rapporto con suo padre, Vittorio, viene costruito dopo.
Natalia ovviamente conosceva mio padre già molto prima. Però il loro rapporto si è consolidato negli anni Ottanta, diventando anche molto intenso. Si sentivano al telefono ogni mattina alle sette, e quando Natalia diventò deputato del Partito comunista, la conversazione serviva a chiarire cosa lei dovesse fare in parlamento. Mio padre sosteneva che Natalia di politica “non capiva niente”.

Si trovavano d’accordo?
Tra loro due ci fu uno scontro quando si trattò di cambiare nome al Pci. Natalia voleva assolutamente che rimanesse identico, invece mio padre, cui piaceva molto mostrare di saper guardare avanti, sosteneva che fosse necessario cambiarlo.

Il suo rapporto con la Ginzburg invece com’era, Anna?
Ho parlato varie volte con Natalia di religione. All’epoca cominciavo ad avvicinarmi all’ebraismo e lei era molto incuriosita da questo mio percorso. Parlavamo a lungo, anche se Natalia non si scopriva mai molto. Io le spiegavo il mio punto di vista, e cioè che l’ebraismo non prevedesse un’insistenza sulla fede in Dio, perché l’appartenenza, la ritualità, sono molto più importanti e centrali di Dio e della fede – tanto è vero che la parola fede, nell’ebraismo, non esisteva nemmeno sino al medioevo… E lei mi domandava: “Ma come può non essere la stessa cosa l’ebraismo e la fede in Dio?”

Convinse la Ginzburg a seguirla nell’avvicinamento all’ebraismo?
No, nemmeno volevo farlo, d’altronde. Ne parlavamo, lei mi sembrava incuriosita. E infatti rimasi molto colpita quando scoprii che si era convertita al cattolicesimo.

Come l’ha scoperto?
Perché Natalia ebbe un funerale cattolico. E ciò significa che lo richiese. Certo, è vero che Natalia era figlia di una madre non ebrea, e secondo la legge si è ebrei solo se si nasce da madre ebrea. Natalia però aveva questa oscillazione, l’inquietudine di chi appartiene a entrambi i mondi, anche se sua madre non aveva ricevuto un’educazione cattolica. Secondo me, Natalia aveva pochissimo di cattolico nella sua scrittura, nel suo modo di essere. Probabilmente, come mi disse mio padre, si era convertita soltanto per sposarsi con il suo secondo marito, Gabriele Baldini. La mia sensazione è che lei non avesse una fede, ma ne fosse molto attratta. Però, ripeto, so pochissimo di cosa lei sentisse. E anche la conversione, il funerale religioso, di per sé significano pochissimo.

Perché secondo lei, da storica, Lessico famigliare è un libro che è rimasto?
Lessico famigliare racconta l’unica aristocrazia che abbiamo in Italia. O meglio, in quel romanzo essa viene esplicitamente raffigurata come un’aristocrazia: il mondo degli intellettuali torinesi, un universo che ha rappresentato molto dal ’63 in poi, affascinando generazioni e generazioni di persone. Penso che l’impatto che questo romanzo ha avuto sia assolutamente anomalo rispetto a ciò che è: un libro di memorie, sia pure scritte in maniera straordinariamente nuova.

Come si spiega la sua permanenza, allora?
Secondo me, Lessico Famigliare ha rivelato a un’Italia che aveva bisogno di miti un mondo che aveva tutte le caratteristiche per essere mitizzato.

Non era già di per sé un mondo mitico?
Non prima di quel libro. Il fascino degli intellettuali torinesi antifascisti si costruisce a partire da Lessico famigliare. Sì, c’era già stato Primo Levi, però le memorie di Natalia consolidano definitivamente l’importanza di quel mondo. E per questo ancora oggi siamo qui a parlarne.




Francesco De Sanctis e Boccaccio

Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1971, pp. 314-330.

Se ora apri il Decamerone, letta appena la prima novella, gli è come un cascar dalle nuvole e un domandarti col Petrarca: “Qui come venn'io o quando?”. Non è una evoluzione, ma è una catastrofe, o una rivoluzione, che da un dì all'altro ti presenta il mondo mutato. Qui trovi il medio evo non solo negato, ma canzonato.   Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi secoli, con questa differenza, che il Molière te ne fa venire disgusto e ribrezzo, con l'intenzione di concitare gli uditori contro la sua ipocrisia, dove il Boccaccio ci si spassa con l'intenzione meno d'irritarti contro l'ipocrita che di farti ridere a spese del suo buon confessore e de' creduli frati e della credula plebe. Perciò l'arma del Molière è l'ironia sarcastica; l'arma del Boccaccio è l'allegra caricatura. Giovanni Boccaccio sotto un certo aspetto fu il Voltaire del secolo decimoquarto.  
Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono ch'egli guastò e corruppe lo spirito italiano. Egli medesimo in vecchiezza fu preso dal rimorso e finì chierico, condannando il suo libro. Ma quel libro non era possibile, se nello spirito italiano non fosse già entrato il guasto, se “guasto” s'ha a dire. Ove le cose, di cui ride il Boccaccio, fossero state venerabili, poniamo pure ch'egli avesse potuto riderne, i contemporanei ne avrebbero sentita indignazione. Ma fu il contrario. Il libro parve rispondere a qualche cosa che volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime, parve dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel loro segreto, e fu applauditissimo. Il Boccaccio fu dunque la voce letteraria di un mondo, quale era già confusamente avvertito nella coscienza. C'era un segreto: egli lo indovinò, e tutti batterono le mani. Questo fatto, in luogo d'essere maledetto, merita di essere studiato. 
Il carattere del medio evo è la trascendenza, un dì là oltreumano ed oltrenaturale, fuori della natura e dell'uomo, la perfezione e la virtù fuori della vita, la legge fuori della coscienza, lo spirito fuori del corpo, e lo scopo della vita fuori del mondo. L'ascetismo era il frutto naturale. La vita quaggiù perdeva la sua serietà e il suo valore. L'uomo dimorava con lo spirito nell'altra vita. E la cima della perfezione fu posta nell'estasi, nella preghiera e nella contemplazione.  Così nacque la letteratura teocratica, così nacquero le leggende, i misteri, le visioni, le allegorie: così nacque la Commedia, il poema dell'altra vita. Il pensiero non aveva intimità, non calava nell'uomo e nella natura, ma se ne teneva fuori, tutto intorno alla natura e alle qualità degli enti, che erano le stesse forze umane e naturali sciolte dall'individuo ed esistenti per sé stesse. Le astrazioni dello spirito divennero esseri viventi. Come il mondo scolastico fu popolato di esseri astratti, così il mondo poetico fu popolato di esseri allegorici, l'uomo, l'anima, la donna, l'amore, le virtù, i vizi. Il sentimento, come frutto di inclinazioni umane e naturali, era peccato. Le passioni erano scomunicate. La poesia era madre di menzogne. Il teatro cibo del diavolo. Il sentimento, reietto come senso e costretto ad esser ragione, strappato dal cuore umano, divenne anch'esso un universale, un fatto esteriore, ora simbolico, ora scolastico. Il padre de' sentimenti, l'amore, divenne un fatto filosofico, forza unitiva. Così nacque la lirica platonica, dal Guinicelli al Petrarca. Il senso e l'immaginazione si ribellavano contro questo platonismo. Ed è in questa ribellione, ancoraché poco scrutata e poco accentuata, che è la grandezza della lirica petrarchesca. Rappresentare i moti del cuore e della immaginazione nella loro naturalezza e intimità era vietato. E colui che più gustò di questo frutto proibito, fu il Petrarca.   L'immaginazione era un istrumento dell'intelletto, destinata a creare forme e simboli di concetti astratti. Lo sa il povero Dante. Nessuno ebbe mai l'immaginazione così torturata. E nacquero forme simboliche e intellettuali, nella cui generalità scomparve l'individuo con la sua personalità. Erano forme tipiche, generi e specie, anziché l'individuo. La regina delle forme, la donna, non poté sottrarsi a questa invasione degli universali, e rimase un ideale più divino che umano, bella faccia, ma faccia della sapienza, più amata che amante, e amata meno come donna che come scala alle cose celesti. Così nacquero Beatrice e Laura. Certo, a nessuno è lecito parlare con poca riverenza di questo mondo dell'autorità che segna un momento interessantissimo nella storia dello spirito umano, e che ha pure il suo fondamento nella vita. Questa elevazione dell'anima in se stessa, e al di sopra de' limiti ordinari della vita reale, è il lato eroico dell'umanità. Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e i piaceri, è degno di stima.   Ma è uno stato di tensione e di disquilibrio che non può aver durata. L'arte, la coltura, la conoscenza e l'esperienza della vita lo modificano e lo trasformano.   L'arte, impossessandosi di questo mondo, lo umanizza, lo accosta all'uomo e alla natura, lo mescola di altri elementi, vi fa penetrare le passioni e i furori del senso. Non ci hai ancora equilibrio; non ci hai qualche cosa che sia la vita nella sua intimità, insieme paradiso e inferno; ma già di rincontro al paradiso hai l'inferno, di rincontro a Beatrice hai Francesca da Rimini. Nel Canzoniere quel mondo si spoglia pure le sue forme natie, teologiche, scolastiche, allegoriche, e prende aspetto più umano e naturale. Ma già quel mondo nel Canzoniere non ha più il calore dell'entusiasmo e della fede. Il sentimento religioso, morale, politico vive fiaccamente nella coscienza del poeta; e il posto rimasto vuoto è occupato dall'arte. Questo infiacchirsi della coscienza, questo culto della bella forma fra tanta invasione di antichità greco-romana sono i due fatti caratteristici della nuova generazione, che succede all'età virile e credente e appassionata di Dante. Quegli uomini non si appassionano più per le dottrine, e non cercano il vero sotto i “versi strani”; la “bella veste” li appaga. I loro studi non hanno più a guida l'investigazione della verità, ma l'erudizione: c'è il sapere per il sapere. Ci sono ancora gli scolastici, che chiamano il Petrarca un insipiente, ma le loro querele si sperdono nel plauso universale, che pone il Petrarca accanto a Virgilio . La coltura e l'arte sono i nuovi idoli dello spirito italiano.  
Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni dopo il Petrarca e otto prima della morte di Dante, “non pienamente avendo imparato grammatica”, come scrive Filippo Villani, “volendo e costringendolo il padre per cagione di guadagno, fu costretto ad attendere all'abbaco, e per la medesima cagione a peregrinare”. Il padre era un mercante fiorentino, e alla mercatura indirizzò il figlio. Quando i giovani appena cominciavano i loro studi nella università, il nostro Giovanni faceva, come si direbbe oggi, il commesso viaggiatore in servigio del padre, e il suo libro era la pratica e la conoscenza del mondo. Girando di città in città, si mostrava più dedito alle piacevoli letture e a' passatempi che all'esercizio della mercatura, e più uomo di spirito e d'immaginazione che uomo d'affari.  Venuto in Napoli a ventitrè anni, menava vita signorile, bazzicava in corte, usava co' gentiluomini, spendeva largamente, amoreggiava, scribacchiava, leggicchiava. Dicesi che alla vista della tomba di Virgilio rimase pensoso e sentì la sua vocazione poetica. Fatto è che il buon padre, visto che non se ne potea cavare un mercante, pensò farne un giureconsulto, e lo mise a studiare i canoni, con gran rincrescimento del giovane, che chiama sciupato il tempo messo a fare il mercante e ad imparare i canoni. Finalmente, libero di sé, si gittò agli studi letterari, e come portava il tempo, si die' al latino e al greco, e si empì il capo di mitologia e di storia greca e romana. Ei menava la vita, mezzo tra gli studi e i piaceri, spesso viaggiando, non più a mercatare, ma a cercar manoscritti. Il Petrarca non era ancora comparso sull'orizzonte: tutto era pieno di Dante, e tra' suoi più appassionati era il nostro poeta. Frutto della sua ammirazione fu la Vita di Dante, uno de' suoi lavori giovanili. Ma egli poteva ammirarlo, non comprenderlo, perché lo spirito di Dante non era in lui. Formatosi fuori della scuola, alieno da ogni seria coltura scolastica e ascetica, profano anziché mistico ne' sentimenti e nella vita, si foggiò un Dante a sua immagine. Chi vuol conoscere le opinioni e i sentimenti del nostro giovane, legga quel libro e vi troverà già la stoffa, da cui uscì il Decamerone. Nessuna originalità e profondità di pensiero, nessuna sottigliezza di argomentazione; tutto vi è dimostrato, anche le più comuni verità, ma il fondamento della dimostrazione non è nell'intelletto, è nella memoria; non hai innanzi un pensatore, né un disputatore, ma un erudito. Vuol mostrare l'ingratitudine di Firenze verso Dante, ed ecco uscir fuori Solone, “il cui petto uno umano tempio di divina sapienza fu reputato”, e la Siria, la Macedonia, la greca e la romana repubblica, e Atene, e Argo, e Smirne, e Pilos, e Chios, e Colofon, e Mantova, e Sulmona, e Venosa, e Aquino. “Tu sola, ” conchiude il poeta “quasi i Cammilli, i Publicoli, i Torquati, Fabrizi, Catoni, Fabi, Scipioni ... in te fossero, ... avendoti lasciato il tuo antico cittadino Claudiano cader dalle mani, non hai avuto del presente poeta cura, ma l'hai da te scacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo soprannome”. Volendo parlar di Dante, comincia ab ovo, dalla prima fondazione di Firenze. Spesso lascia lì Dante ed esce in lunghe digressioni, tra le quali è notabile quella sulla natura della poesia. Secondo lui, il linguaggio poetico fu trovato per porgere “sacrate lusinghe” alla divinità, con parole lontane “da ogni altro plebeo e pubblico stile di parlare” e “sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse e cacciassesi il rincrescimento e la noia”. I poeti imitarono “dello Spirito santo le vestigie”, perché come nella divina Scrittura, “la quale teologia appelliamo, quando con figura di alcuna storia, quando col senso di alcuna visione”, si mostra l'“alto mistero della Incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa ... così i poeti, ... quando con finzioni di vari iddii, quando con trasmutazioni di uomini in varie forme, quando con leggiadre persuasioni ne dimostrano le cagioni delle cose e gli effetti delle virtù e de' vizi”. Poi spiega ciò che lo Spirito santo volle mostrare nel rogo di Mosè, nella visione di Nabuccodonosor, nelle lamentazioni di Geremia; e ciò che i poeti vollero mostrare in Saturno, Giove, Giunone, Nettuno e Plutone e nelle trasformazioni di Ercole in dio e di Licaone in lupo, e nella bellezza degli Elisi e nell'oscurità di Dite. E ribattendo quelli che chiamano i poeti antichi “uomini insensati”, inventori di favole “a niuna verità convenienti”, conclude che “la teologia e la poesia quasi una cosa si posson dire”, anzi che la “teologia niun'altra cosa è che una poesia d'Iddio” e “poetica finzione”. L'erudito poeta non si arresta qui, e ci regala la favola di Dafne, amata da Febo e in lauro convertita, per darci spiegazione perché i poeti avevano la corona d'alloro. Di quello che fu il mondo interiore di Dante, qui non è alcun vestigio; invece il mondo esterno vi è sviluppato fino all'aneddoto, fino al pettegolezzo. Ci si vede uno spirito curioso e profano che cerca il maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani, disposto a spiegarli con la superficialità di un erudito e di un uomo di mondo, o “del secolo”, come si diceva allora. Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra un sogno attribuito alla madre di Dante e vi fa pompa di tutta la sua erudizione. Sotto il suo sguardo profano Beatrice perde tutta la sua idealità, e l'amore di Dante, scacciato dalle sue regioni ascetiche e platoniche e scolastiche, acquista una tinta romanzesca. Il nostro Giovanni non si fa capace come Dante a nove anni abbia potuto amare Beatrice. Il caso gli pare strano, e ne cerca diverse spiegazioni. Forse fu “conformità di complessioni o di costumi”; forse anche “influenza da cielo”. Ma queste spiegazioni non lo appagano, e si ferma in quest'altra, che cava dall'esperienza. Dante, secondo lui, vide Beatrice in una festa il primo di maggio, quando la “dolcezza del cielo riveste dei suoi ornamenti la terra, e tutta per la varietà de' fiori mescolati tra le verdi fronde la fa ridente, e per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la generale allegrezza, per la delicatezza de' cibi e de' vini, gli animi eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti ampliarsi e divenire atti a poter leggermente esser presi da qualunque cosa che piace”.  Dante dunque amò fanciullo per la stessa ragione che può amare un uomo maturo; i cibi e i vini delicati e l'allegrezza generale, ecco ciò che dispose il suo animo all'amore. Beatrice era per Dante “angeletta bella e nova”, senza contorni e senza determinazioni scesa di cielo a mostrare le bellezze e le virtù che le piovono dalle stelle. Tutto questo non entra al Boccaccio, il quale vuol pure spiegarsi come la potè parere un'angioletta, e si foggia nella profana immaginazione una bella immagine di fanciulla, e la descrive così: 
 “Assai leggiadretta secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste che 'l suo picciolo tempo non richiedeva; ed oltre a questo, aveva le fattezze del volto dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi un'angioletta era reputata da molti.”  Ecco un'angioletta di carne; eccoci dalle mistiche altezze di Dante caduti in piena fisiologia e notomia. Dante amò, perché tra vivande e sollazzi l'animo è disposto ad amare; e Beatrice parea quasi un'angioletta, perché era fatta così e così. Beatrice muore a ventiquattro anni. Il nostro biografo non se ne maraviglia, perchè “un poco di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo, ... ci conduce” alla morte. I parenti e gli amici per consolare Dante gli diedero moglie:  “Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti!”, esclama il nostro scapolo e nemico dell'amore regolato. “Qual medico” egli aggiunge   “s'ingegnerà di cacciare l'acuta febbre col fuoco, o 'l freddo delle midolla delle ossa col ghiaccio o colla neve?”.  

E qui da uomo esperto della materia parla della natura e de' fenomeni dell'amore e dell'indole delle donne, e delle noie e degli affanni de' mariti, e compiange il povero Dante. Dipinge con tocchi sicuri, e in certi punti è eloquente, perché qui è in casa sua. Udite questo periodo: “Possiamo pensare quanti dolori nascondono le camere, li quali da fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacia trapassa le mura, sono riputati diletti”. Ma Dante, secondo ch'egli narra, dimenticò presto moglie e Beatrice, e si die' all'amore delle donne: ciò che l'indusse al gran viaggio nell'altro mondo, ove se ne fece così aspramente rimproverare da Beatrice. Il quale amore non pare poi un così gran peccato al nostro scapolo: “Chi sarà tra' mortali giusto giudice a condannarlo? Non io”. Ed ecco venire innanzi l'erudito, e citare parecchi casi di uomini illustri vinti dalle donne, Giove, Ercole, Paride, Adamo, Davide, Salomone, Erode. Ti par di assistere a una parodia. Eppure niente è più serio. Il giovane è pieno di ammirazione verso Dante che chiama un “iddio fra gli uomini”, e crede con questa Vita riparare alla ingratitudine di Firenze e alzargli un monumento.  La Vita di Dante è una rivelazione. Qui dentro si manifesta l'autore in tutta la sua ingenuità e spontaneità: vi trovi il nuovo uomo che si andava formando in Italia. Mette in un fascio mondo sacro e profano, Bibbia e mitologia, teologia e poesia: la teologia è una “poesia di Dio”, una “finzione poetica”. Questa strana mescolanza era già comune al secolo; Dante stesso ne dava esempio. Ma dove Dante tirava il mondo antico nel circolo del suo universo e lo battezzava, lo spiritualizzava, il Boccaccio sbattezza tutto l'universo e lo materializza. In teoria ammette la religione, e parla con riverenza della teologia, che ci fa conoscere “la divina essenza e le altre separate intelligenze”. Ma in pratica questo mondo dello spirito rimane perfettamente estraneo alla sua intelligenza e al suo cuore. Misticismo, platonicismo, scolasticismo, tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso per lui. Non solo questo mondo gli rimane estraneo come coltura, ma ancora più come sentimento. Spento è in lui il cristiano, e anche il cittadino. Non gli è mai venuto in mente che servire la patria e dare a lei l'ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto, come è il provvedere al proprio sostentamento. Dietro al cittadino comincia a comparire il buon borghese, che ama la sua patria, ma a patto non gli dia molto fastidio, e lo lasci attendere alla sua industria, e non lo tiri per forza di casa o di bottega. De' guelfi e ghibellini è perduta la memoria, tanto che il Boccaccio crede doverne spiegare il significato. E non si persuade come Dante siesi potuto mescolare nelle pubbliche faccende, e ne reca la cagione alla sua vanità, ed ha quasi l'aria di dirgli: - Ben ti sta. - Non voglio dire con questo che il Boccaccio fosse uomo dispregiatore della religione o della virtù o della patria. Sciolto era di costumi, pure tutti i doveri comuni della vita li adempiva con la stessa puntualità e diligenza degli altri, e molte legazioni gli furono commesse da' suoi concittadini. Ma l'età eroica era passata; la nuova generazione non comprendeva più le lotte e le passioni de' padri; il carattere era caduto in quella mezzanità che non è ancora volgarità, e non è più grandezza; della religione, della libertà, dell'uomo antico c'erano ancora le forme, ma lo spirito era ito. L'erudizione, l'arte, gli affari, i piaceri costituivano il fondo di questa nuova società borghese e mezzana, della quale ritratto era il Boccaccio, gioviale, cortigiano, erudito, artista. Se la malinconia dell'estatico Petrarca ti presentava un simulacro dell'uomo antico, la spensierata giovialità del Boccaccio è l'ingresso nel mondo, a voce alta e beffarda, della materia o della carne, la maledetta, il peccato; è il primo riso di una società più colta e più intelligente, disposta a burlarsi dell'antica.   Questo tempo fu detto di transizione. Vivevano insieme nel seno degli uomini due mondi, il passato nelle sue forme se non nel suo spirito, ed un mondo nuovo che si affermava come reazione a quello, fondato sulla realtà presa in se stessa e vuota di elementi ideali. Erano in presenza il misticismo, con le sue forme ricordevoli del mondo soprannaturale, e il puro naturalismo. Ma il misticismo, indebolito già nella coscienza, era divenuto abituale e tradizionale, applaudito nel Petrarca non come il mondo sacro, ma come un mondo artistico e letterario. Il naturalismo al contrario sorgeva allora in piena concordia con la vita pratica e co' sentimenti, con tutti gli allettamenti della novità. Questo mutamento nello spirito dovea capovolgere la base della letteratura. Il romanzo e la novella, rimasti generi di scrivere volgari e scomunicati, presero il sopravvento. Al mondo lirico, con le sue estasi, le sue visioni e le sue leggende, il suo entusiasmo, succede il mondo epico o narrativo, con le sue avventure, le sue feste, le sue descrizioni, i suoi piaceri e le sue malizie. La vita contemplativa si fa attiva; l'altro mondo sparisce dalla letteratura; l'uomo non vive più in ispirito fuori del mondo, ma vi si tuffa e sente la vita e gode la vita. Il celeste e il divino sono proscritti dalla coscienza, vi entra l'umano e il naturale. La base della vita non è più quello che dee essere, ma quello che è: Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro.