domenica 8 giugno 2014

Franco Fortini, L'animale

L'animale

Stanotte un qualche animale
ha ucciso una bestiola, sottocasa. Sulle piastrelle
che illumina un bel sole
ha lasciato uno sgorbio sanguinoso
un mucchietto di visceri viola
e del fiele la vescica tutta d’oro.
Chissà dove ora si gode, dove dorme, dove sogna
di mordere fulmineo e eliminare
dal ventre della vittima le parti
fetide, amare.
Vedo il mare, è celeste, lietissime le vele.
E non è vero.
Il piccolo animale sanguinario
ha morso nel veleno
e ora cieco di luce
stride e combatte e invoca dagli spini pietà.


[Per un'analisi della poesia vedi: R. Luperini, "Il momento di Fortini", in: id., "La lotta mentale. Per un profilo di Franco Fortini", Roma, Editori Riuniti, 1986, pp.100-111.]


Un commento.
Biancamaria Frabotta

L’animale è una delle poesie più antiche di Composita solvantur. Scritta nella primavera del 1985 fu pubblicata nello stesso anno su una piccola rivista pugliese, “L’immaginazione” (n. 6-7) e letta da Fortini il giorno in cui gli fu conferito il premio Librex-Guggenheim “Eugenio Montale”. Si trattava di un testo di prima scelta e assai appropriato, sia nell’ambito tematico che metaforico, all’ispirazione montaliana del premio. Si ripresentava l’occasione di un nuovo confronto con il grande maestro di quella che, con un notevole scarto nei confronti di più tradizionali categorie critiche novecentesche, Fortini aveva definito “poesia dell’esistenzialismo storico” ("I poeti del Novecento", Laterza, Roma-Bari 1977). Nel 1986, in un saggio assai tempestivo dedicato a L’animale, riconsiderando gli sviluppi dell’ultimo Montale, ma anche di Sereni, Luzi e Zanzotto, Romano Luperini ne approfittava per riconfermare il valore profetico della poesia allegorica di Fortini, ribadendo la sua estraneità alla linea simbolista e postsimbolista. “Poteva sembrare un attardato ed era un precursore”("La lotta mentale", Editori Riuniti, Roma 1986, p. 111). Che oggetto della sua allegoria fosse, come nei massimi esempi dell’arte novecentesca, “il nulla”, non ne intaccava la scelta di responsabilità e di testimonianza. L’animale, nella versione commentata da Luperini esibiva nell’epigrafe una testuale ripresa dell’ultima terzina del sonetto Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto, pubblicato in Paesaggio con serpente. Si tratta di una pessimistica e quasi ironica variazione su un tema dell’Apocalisse: “Quanto sei bella, giglio di Saron, /Gerusalemme che ci avrai raccolti. /Quanto lucente la tua inesistenza”. Questa “inesistente” Gerusalemme celeste (ma ricordiamo che una “madre inesistente” compare proprio all’inizio di Foglio di via) secondo Luperini non va intesa se non come “un luogo del pensiero” e contribuisce a segnalare nell’Animale una “tensione religiosa e allegorica a un significato”, piuttosto che “la positiva fede in questo medesimo significato”( ibidem, p. 109).
Nel 1989 Fortini è a Gerusalemme per una settimana e gli appunti di viaggio pubblicati su "Extrema ratio" ci forniscono la prova che con la sua risonanza la data di questo pellegrinaggio etico-politico nel suo calendario interiore contò più di quella della caduta del Muro di Berlino. Non che fosse scemata la sua opposizione alla politica militare del governo israeliano, ma ora, esposto in prima persona alla “sindrome di Gerusalemme”, egli vuole, una volta per tutte, penetrarne la densità allegorica e se necessario rintracciarvi, anche a costo della propria personale coerenza, il discrimine fra errore e verità, ma anche fra male e bene e indagarvi il male della soggettività, dico, che non è solo ferita inferta dalla storia, leopardiano paesaggio sbranato, sanguinaria guerra per la sopravvivenza della specie, ma anche paralisi sentimentale, aridità, rigore privo di compassione. Ed è appunto questo non sempre apertamente ammesso coacervo di timori e di sentimenti che fornisce, io credo, il formicolante sottotesto dell’ "Animale" poesia che, a detta dello stesso Fortini, appartiene ancora al territorio mentale di "Paesaggio con serpente": “il mondo visto come paesaggio, come cosa già disposta in due dimensioni, dove cioè è presente questo elemento di male, di negatività”.
Una diversa contestualizzazione della poesia viene alla luce però solo con la minuziosa ricostruzione quasi postuma dei saggi di "Attraverso Pasolini" (Einaudi, 1993). Fortini nutriva un’alta considerazione della sua intelligenza critica e del ruolo di guida e di profeta che si attribuiva all’interno della sinistra italiana. Ma non sempre un’analoga sicurezza lo sorreggeva, quando era posto in discussione il valore della sua poesia. In uno dei suoi rari saggi autobiografici, "Metrica e biografia", affiora una certa titubanza manifestata in termini quasi psicoanalitici, nonostante la ben nota diffidenza di Fortini verso quest’altra mitologia novecentesca. Non sempre limpido e continuamente oscillante fra l’impulso dei sentimenti e il rigore della ragione appare sin dall’origine il litigioso interesse di Fortini verso Pasolini, al quale si legò in un rapporto tortuoso, ma a suo modo appassionato e fedele. Con l’autore de "Le ceneri di Gramsci" (cui in passato egli aveva dedicato pagine faziose ma acutissime) il vecchio Fortini ha ancora un conto in sospeso che non riguarda solo una diversa visione del mondo e della politica, ma probabilmente qualcosa di più segreto e inconfessabile.
A suo tempo, negli anni lontani di Una polemica in versi, Pasolini lo aveva accusato di aridità e di mistico rigore, con quei suoi modi intrisi di cinismo e di innocenza ai quali Fortini non seppe mai reagire, se non con sanguinosi insulti che, ovviamente, misero fine ad ogni loro rapporto. Ma, a differenza di Pasolini che presto lo dimenticò insieme a quelle sorpassate risse, Fortini non dimenticò mai e per occulte e traverse vie quel trauma, quel misto di amore e di risentimento, di feroce repulsa e attrazione, finì per rispuntare, anche se in modi sotterranei e addirittura subliminali, nel sottotesto de L’animale che, secondo Mengaldo almeno , è “forse il capolavoro” di "Composita solvantur" ("Vero personale e politico", <<L'Unità>>, 28.3.1994). Ripubblicata fra le Penultime di "Ultimi versi.1939-1989", la poesia perde la sua “apocalittica” epigrafe e così il trait d’union più visibile che la lega a Paesaggio con serpente, pure ben riconoscibile nella sinistra microcronaca del “piccolo animale sanguinario”. Esce di scena anche l’implicito riferimento al sonetto dedicato a Zanzotto, la cui rilevanza in Paesaggio con serpente era stata amplificata al punto da suggerire il titolo di un’intera sezione, Versi per la fine dell’anno. In "Composita solvantur" infine l’ormai celebre testo perde anche il titolo, trasferito alla sezione che lo comprende e sostituito, come del resto capita a ben ventisei dei trentotto componimenti della raccolta, da un rapido incipit,ovvero Stanotte…che ripete il primo verso, “Stanotte un qualche animale”, ma come appena accennato e pronunciato a mezza bocca. Come già altrove, Fortini dissemina a piene mani i puntini di sospensione e non per una recuperata inclinazione ad un’allusività ermetizzante, ma piuttosto per suggerire una nuova fretta del dire, un andare a tentoni nel buio,un farsi strada a stento in un intrigo di calchi e di autocitazioni. Composita solvantur è un libro affetto da labirintismo e disegna nei nostri cuori un tracciato sbilenco e sin troppo centrato. Con la elisione dell’epigrafe non solo svanisce il riferimento a Zanzotto (che a sua volta era stato l’intelligente prefatore nel 1980 delle diciotto poesie di "Un’obbedienza") ma anche a colui che si svelerà poi come il criptodestinatario del sonetto. E cioè lo stesso Pasolini, assassinato all’Idroscalo da meno di due mesi. In un paragrafo di Attraverso Pasolini, intitolato Una epigrafe (sulla cui cancellazione in realtà non ci viene fornito alcun lume) Fortini ci narra una storia che chiamerei di vanità e di carità. Sottaciuto nei versi e confessato nella marginale chiosa di una nota ("Attraverso Pasolini", pp. 147-148), travolge Fortini un orgoglioso empito generazionale ed egli non sa resistere alla tentazione di affiliarsi con Zanzotto e Pasolini a una illustre triade, tanto più significativa e luminosa in quegli anni bui: “se uno è vinto e un altro è stato ucciso, /uno ha durato contro lo sgomento”. Sono versi che affermano un desiderio di riconoscimento e un bisogno di appartenenza che invano Fortini attese dal suo più fortunato amico-nemico. Ma alla loro vanità si affianca la carità di un risarcimento necessario. Nel 1976 su “Nuovi argomenti” era comparso, su richiesta della rivista, un epitaffio fortiniano assai poco compassionevole: “Dicevi di voler ritornare al tuo paese. Ma quello/non era il tuo paese. Così l’inganno //di oggi ti rivelava quello di allora,o infelice. /Nulla ti fu mai vero. Non sei mai stato. //I tuoi versi stanno. Tu mostruoso gridi”. I versi sono crudi, ma ci fanno intercettare il capo del filo con cui Fortini vorrebbe tessere un sotterraneo legame fra sé e l’altro, riferendosi all’illusione di un paese che fosse per entrambi “inesistente” madre immaginaria, il materno Friuli per Pasolini e per lui, la terrestre e infida Gerusalemme paolina. “Ma quella realtà non era mai esistita”, scrive Fortini nel 1993, cercando di dipanare la matassa imbrogliata di un rapporto intessuto di identificazione oscuramente desiderata, progressivamente rimossa e infine negata. “Era stata un’illusione procurata, una proiezione di gioventù” (Attraverso Pasolini, p. 145). Non è solo la storia di “un’oscura psicomachia” tipicamente fortiniana, come direbbe Zanzotto, ma anche la controprova del suo habitus mentale ed etico, e cioè l’abitudine imitata da Brecht e mai sconfessata, di nascondere la carità dietro i panni dei una rozza crudeltà. E la crudeltà, a sua volta, dietro la maschera della pietà. Tra le numerose e minute chiose di Fortini al secondo e più misericordioso ricordo di Pasolini, occultato dietro le allusioni del sonetto per Zanzotto, non a caso la sua attenzione si concentra sui versi 3-4 (”Ora nel vischio del suo fiele intriso /starà così per sempre dunque spento”) già essi esempio, a mio parere, di un ben lievitato impasto fra il pascolismo (pasoliniano) del “vischio” e il montalismo (fortiniano) del “fiele”. Ed entrambe le immagini sono riaccostabili al “vischio/che fa dolce la nausea e la pietà” e al “miele dei morti e del peccato” di Al di là della speranza, la puntigliosa risposta di Fortini alla pasoliniana Una polemica in versi. E quando si sofferma su quel “‘vischio’ che cola come da un insetto o da un rettile, dall’anno ‘da sé diviso’” (Attraverso Pasolini, p. 146) siamo già a Paesaggio con serpente e all’Animale, al suo “mucchietto di visceri viola /e del fiele la vescica tutta d’oro”. Dietro la “bestiola” che in una bella giornata estiva, cade, vittima e carnefice di uno stesso atto di natura, incolpevole, ma certo non innocente, giganteggia l’inganno della Bestia, il morso avvelenato che contagia ogni autentica compassione e che, pure nell’eco manzoniana dell’ultimo verso, “stride e combatte e implora dagli spini pietà”. Con la falsa calma e l’esemplare oggettività di una parabola sul “nulla”, scritta dalla parte del “tutto”, Fortini torna sul luogo del delitto non suo certo, ma anche suo in qualche modo e per cancellare le tracce di un’aspirazione, insieme sacrificale e fratricida, a fondersi in comunione con il valore testimoniale che la morte violenta aveva aggiunto alla poesia dell’amico rivale. E insieme cancella anche l’epigrafe, spia di quel trasversale omaggio e ricordo. In Composita solvantur, a parte un fuggevole cenno alle “rozze benne” de La salita, di Pasolini resterà ben poco. E anche di Zanzotto in verità, entrambi segregati in quel furtivo moto di identificazione recisa e di negazione rimossa. Altri saranno i primi piani concessi, altri i suoi più discreti sodali e Custodi. Pochi poeti del Novecento italiano come Fortini nutrirono nei riguardi del corpo, oggetto nella sua poesia quasi solo di sacre violazioni, un orrore così profondo. Ed è nell’epifania fisica e animale del martirio che Pasolini, avvolto come sempre in un alone di cinismo e di innocenza, tornò ad “attraversare” la poesia di Fortini e proprio in uno dei suoi luoghi intellettualmente ed eticamente più esposti, ma anche più impassibili e adamantini. E vi si insediò, forse, con il ricordo del suo corpo sfigurato, finché non fu l’altro, il sopravvissuto, a doverne riattraversare l’ombra, come un’immagine dentro un’acqua bruna. Attraverso Pasolini: un viaggio iniziatico nel dubbio e nel vanto di un peccato forse soltanto soggettivo; la passione per la scelta, piuttosto che per i contenuti di quella scelta; la verità senza errori e compassione.

[Estratto da "Composita solvantur. Le ultime verità di un poeta", in «L’illuminista», n. 12, a. IV, settembre – dicembre 2004, pp. 75 – 108. Alcune note sono state tagliate].

Nessun commento:

Posta un commento