martedì 10 giugno 2014

Il teatro di Shakespeare



“A Londra […] benché il famoso <<vento protestante>> avesse affondato l’Invincibile Armada nel 1588, la paura di un’invasione straniera era ricorrente, e le voci di complotti per uccidere la regina Elisabetta costanti.  […] le spie del governo, penetrando vorticosi, oscuri intrighi sia nelle ambasciate sia a corte, trovarono molte buone ragioni per essere preoccupate. Un gruppo in particolare, la fazione militante protestante e violentemente antispagnola organizzata intorno alla figura dell’ambizioso favorito della regina, il conte di Sussex, venne addestrata specificamente a sventare complotti concreti o potenziali. Il 21 gennaio 1594 la banda di Essex trovò ciò che cercava: il dottore personale della regina, Roderigo (Ruy) Lopez, di origine portoghese, fu arrestato con l’accusa di tramare insieme al re di Spagna che, secondo le lettere intercettate, gli aveva inviato una strabiliante somma di denaro […] per svolgere un’importante missione. […] Secondo tutte le versioni Lopez era un cristiano praticante – un fedele protestante completamente assimilato nell’alta società – e gli inglesi si accontentavano normalmente del conformismo religioso esteriore. Ma il particolare profilo della sua malvagità – avidità, perfidia, malizia segreta, ingratitudine e rabbia omicida – sembrava creare il bisogno di una spiegazione speciale, che avrebbe anche rafforzato l’idea che la regina fosse stata miracolosamente salvata grazie all’intervento divino. Il tradizionale odio nei confronti degli ebrei, insieme alla particolare attualità dell’Ebreo di Malta di Marlowe (il cui antieroe, com’è noto, inizia la carriera di dottore avvelenando i suoi pazienti) conferirono alle origini ebraiche di Lopez un importante significato nella storia del suo complotto. Lopez e i due agenti portoghesi accusati di essere intermediari vennero condannati immediatamente, ma la regina ritardò l’approvazione necessaria a effettuare l’esecuzione senza fornire spiegazioni, e il ritardo provocò ciò che gli ufficiali governativi descrissero come «il generale malcontento della gente, che si aspettava quella condanna a morte». Finalmente, il 7 giugno 1594, il popolo […] fu accontentato. Lopez e gli altri vennero fatti uscire dalla Torre di Londra dove erano detenuti. Invitato a dichiarare eventuali ragioni che avrebbero dovuto impedire l’esecuzione, Lopez replicò che si appellava alla conoscenza e al buon cuore della regina. Dopo l’espletamento delle formalità i tre prigionieri vennero messi su una portantina e condotti tra lo scherno degli spettatori fino a Tyburn, nel luogo dell’esecuzione, dove li attendeva la folla. Chissà se William Shakespeare era tra la folla. Il processo di Lopez, con le lotte interne alle fazioni e le torbide accuse, avevano generato un vivo interesse. E comunque a Shakespeare interessavano le esecuzioni capitali: una delle sue prime farse, La commedia degli errori, è strutturata intorno al conto alla rovescia di un’esecuzione […] Era professionalmente affascinato dal comportamento della plebe e anche dal comportamento di uomini e donne che affrontavano la morte. […] L’esecuzione del dottor Lopez fu un evento pubblico. Se Shakespeare vi avesse assistito personalmente, avrebbe visto e udito qualcosa che andava oltre alla comune, spettrale esibizione di terrore e crudeltà feroce. In conseguenza alla sua condanna, Lopez era evidentemente sprofondato in una profonda depressione, ma sul patibolo si tirò su e dichiarò, secondo lo storico elisabettiano William Camden, che «amava la regina come amava Gesù Cristo». «Il che, detto da uno che si professava ebreo – aggiunse Camden –, scatenò non poche risate tra la folla». Forse furono proprio queste risate scaturite dalla folla ai piedi del patibolo a ispirare lo straordinario risultato ottenuto da Shakespeare con Il mercante di Venezia. Tanto per incominciare, erano crudeli in modo fuori dal comune: nel giro di pochi minuti quell’uomo vivo sarebbe stato impiccato, e il suo corpo sarebbe stato fatto a pezzi. Le risate della folla negavano solennità a quell’evento trattando la morte violenta come motivo di divertimento. Più specificamente, esse negavano a Lopez la fine che cercava di fare, cioè una fine in cui sperava di riaffermare la sua fede di suddito fedele alla regina e di anima cristiana. Alle ultime parole di un morente veniva normalmente attribuita assoluta sincerità: non c’era tempo per gli equivoci, non c’era più alcuna speranza di rimandare, non c’era più alcuna distanza tra se stessi e qualunque giudizio fosse stato in serbo oltre la tomba. Era, nell’accezione più letterale del termine, un momento di verità. Chi era scoppiato a ridere aveva dichiarato apertamente – agli altri e a Lopez – che non lo credeva. «Detto da uno che si professava ebreo»: Lopez non si professava ebreo; aderiva pubblicamente al protestantesimo e invocava Gesù Cristo. Le risate avevano trasformato le ultime parole di Lopez da una professione di fede a una sottile battuta, un doppio senso accuratamente costruito: «Amava la regina esattamente come amava Gesù Cristo». Ovvero: siccome agli occhi della folla Lopez era un ebreo, e siccome gli ebrei non amavano Gesù Cristo, ciò che voleva dire era che aveva cercato di fare alla regina ciò che la sua razza maledetta aveva fatto a Gesù. Le sue parole corrispondevano a una dichiarazione di innocenza, ma la risposta della folla le trasformò in un’ambigua ammissione di colpevolezza. […] La folla rideva perché pensava di trovarsi di fronte a una maliziosa battuta alla Marlowe […] Si trattava, almeno questo era ciò che capivano, della confessione di un potenziale assassino, un uomo per il quale la parola amore in realtà significava odio. Sebbene il suo mestiere gli richiedesse di divertire un pubblico popolare, Shakespeare non era, evidentemente, del tutto a suo agio con quelle risate. Il dramma che scrisse prende a prestito da L’ebreo di Malta, ma allo stesso tempo ne ripudia l’ironia corrosiva, spietata: posso essere qualunque cosa, sembra dire il commediografo, ma non sono uno che ride ai piedi del patibolo, e non sono Marlowe. Ciò che scaturì al posto dell’ironia alla Marlowe non è tolleranza – dopotutto il dramma mette in scena una conversione forzata come prezzo del perdono – ma […], senza mitigare la natura perfida di Shylock, senza negare la necessità di ostacolare le sue intenzioni omicide, il dramma ci ha offerto un accesso troppo grande alla sua vita interiore, un interesse eccessivo nella sua identità e nel suo destino per permetterci di ridere di cuore e senza disagio. Shakespeare fece ciò che Marlowe non scelse mai di fare, e che la folla che rideva all’esecuzione di Lopez non poteva fare: mise sulla carta ciò che immaginava quell’uomo contorto, che stava per essere distrutto, dicesse tra sé e sé: «Io sono un ebreo. Non ha occhi un ebreo? Non ha mani, un ebreo, organi, membra, sensi, affetti, passione? Non è nutrito dallo stesso cibo, ferito dalle stesse armi, assoggettato alle stesse malattie, curato dagli stessi rimedi, riscaldato e raffreddato dallo stesso inverno e dalla stessa estate, come lo è un cristiano? Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate un torto, non dovremmo vendicarci?» (3.1.49-56).

[S. Greenblatt, Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico, Einaudi, Torino 2005, pp. 297-314, traduzione di  C. Iuli]


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