“A Londra […] benché il famoso
<<vento protestante>> avesse affondato l’Invincibile Armada nel
1588, la paura di un’invasione straniera era ricorrente, e le voci di complotti
per uccidere la regina Elisabetta costanti.
[…] le spie del governo, penetrando vorticosi, oscuri intrighi sia nelle
ambasciate sia a corte, trovarono molte buone ragioni per essere preoccupate.
Un gruppo in particolare, la fazione militante protestante e violentemente
antispagnola organizzata intorno alla figura dell’ambizioso favorito della
regina, il conte di Sussex, venne addestrata specificamente a sventare
complotti concreti o potenziali. Il 21 gennaio 1594 la banda di Essex trovò ciò
che cercava: il dottore personale della
regina, Roderigo (Ruy) Lopez, di origine portoghese, fu arrestato con
l’accusa di tramare insieme al re di Spagna che, secondo le lettere
intercettate, gli aveva inviato una strabiliante somma di denaro […] per
svolgere un’importante missione. […] Secondo tutte le versioni Lopez era un
cristiano praticante – un fedele protestante completamente assimilato nell’alta
società – e gli inglesi si accontentavano normalmente del conformismo religioso
esteriore. Ma il particolare profilo della sua malvagità – avidità, perfidia,
malizia segreta, ingratitudine e rabbia omicida – sembrava creare il bisogno di
una spiegazione speciale, che avrebbe anche rafforzato l’idea che la regina
fosse stata miracolosamente salvata grazie all’intervento divino. Il
tradizionale odio nei confronti degli ebrei, insieme alla particolare attualità
dell’Ebreo di Malta di Marlowe (il
cui antieroe, com’è noto, inizia la carriera di dottore avvelenando i suoi
pazienti) conferirono alle origini ebraiche di Lopez un importante significato
nella storia del suo complotto. Lopez e i due agenti portoghesi accusati di
essere intermediari vennero condannati immediatamente, ma la regina ritardò
l’approvazione necessaria a effettuare l’esecuzione senza fornire spiegazioni,
e il ritardo provocò ciò che gli ufficiali governativi descrissero come «il
generale malcontento della gente, che si aspettava quella condanna a morte».
Finalmente, il 7 giugno 1594, il popolo […] fu accontentato. Lopez e gli altri
vennero fatti uscire dalla Torre di Londra dove erano detenuti. Invitato a
dichiarare eventuali ragioni che avrebbero dovuto impedire l’esecuzione, Lopez
replicò che si appellava alla conoscenza e al buon cuore della regina. Dopo
l’espletamento delle formalità i tre prigionieri vennero messi su una
portantina e condotti tra lo scherno degli spettatori fino a Tyburn, nel luogo
dell’esecuzione, dove li attendeva la folla. Chissà se William Shakespeare era
tra la folla. Il processo di Lopez, con le lotte interne alle fazioni e le
torbide accuse, avevano generato un vivo interesse. E comunque a Shakespeare
interessavano le esecuzioni capitali: una delle sue prime farse, La commedia degli errori, è strutturata
intorno al conto alla rovescia di un’esecuzione […] Era professionalmente
affascinato dal comportamento della plebe e anche dal comportamento di uomini e
donne che affrontavano la morte. […] L’esecuzione del dottor Lopez fu un evento
pubblico. Se Shakespeare vi avesse assistito personalmente, avrebbe visto e
udito qualcosa che andava oltre alla comune, spettrale esibizione di terrore e
crudeltà feroce. In conseguenza alla sua condanna, Lopez era evidentemente
sprofondato in una profonda depressione, ma sul patibolo si tirò su e dichiarò,
secondo lo storico elisabettiano William Camden, che «amava la regina come amava Gesù Cristo». «Il che, detto da uno che
si professava ebreo – aggiunse Camden –, scatenò non poche risate tra la
folla». Forse furono proprio queste risate scaturite dalla folla ai piedi del
patibolo a ispirare lo straordinario risultato ottenuto da Shakespeare con Il mercante di Venezia. Tanto per incominciare,
erano crudeli in modo fuori dal comune: nel giro di pochi minuti quell’uomo
vivo sarebbe stato impiccato, e il suo corpo sarebbe stato fatto a pezzi. Le
risate della folla negavano solennità a quell’evento trattando la morte
violenta come motivo di divertimento. Più specificamente, esse negavano a Lopez
la fine che cercava di fare, cioè una fine in cui sperava di riaffermare la sua
fede di suddito fedele alla regina e di anima cristiana. Alle ultime parole di
un morente veniva normalmente attribuita assoluta sincerità: non c’era tempo
per gli equivoci, non c’era più alcuna speranza di rimandare, non c’era più
alcuna distanza tra se stessi e qualunque giudizio fosse stato in serbo oltre
la tomba. Era, nell’accezione più letterale del termine, un momento di verità.
Chi era scoppiato a ridere aveva dichiarato apertamente – agli altri e a Lopez
– che non lo credeva. «Detto da uno che si professava ebreo»: Lopez non si
professava ebreo; aderiva pubblicamente al protestantesimo e invocava Gesù
Cristo. Le risate avevano trasformato le ultime parole di Lopez da una
professione di fede a una sottile battuta, un doppio senso accuratamente
costruito: «Amava la regina esattamente come amava Gesù Cristo». Ovvero:
siccome agli occhi della folla Lopez era un ebreo, e siccome gli ebrei non
amavano Gesù Cristo, ciò che voleva dire era che aveva cercato di fare alla
regina ciò che la sua razza maledetta aveva fatto a Gesù. Le sue parole
corrispondevano a una dichiarazione di innocenza, ma la risposta della folla le
trasformò in un’ambigua ammissione di colpevolezza. […] La folla rideva perché
pensava di trovarsi di fronte a una maliziosa battuta alla Marlowe […] Si
trattava, almeno questo era ciò che capivano, della confessione di un
potenziale assassino, un uomo per il quale la parola amore in realtà
significava odio. Sebbene il suo mestiere gli richiedesse di divertire un
pubblico popolare, Shakespeare non era, evidentemente, del tutto a suo agio con
quelle risate. Il dramma che scrisse prende a prestito da L’ebreo di Malta, ma allo stesso tempo ne ripudia l’ironia
corrosiva, spietata: posso essere qualunque cosa, sembra dire il commediografo,
ma non sono uno che ride ai piedi del
patibolo, e non sono Marlowe. Ciò che scaturì al posto dell’ironia alla
Marlowe non è tolleranza – dopotutto il dramma mette in scena una conversione
forzata come prezzo del perdono – ma […], senza mitigare la natura perfida di
Shylock, senza negare la necessità di ostacolare le sue intenzioni omicide, il
dramma ci ha offerto un accesso troppo grande alla sua vita interiore, un
interesse eccessivo nella sua identità e nel suo destino per permetterci di
ridere di cuore e senza disagio. Shakespeare fece ciò che Marlowe non scelse
mai di fare, e che la folla che rideva all’esecuzione di Lopez non poteva fare:
mise sulla carta ciò che immaginava quell’uomo contorto, che stava per essere
distrutto, dicesse tra sé e sé: «Io sono un ebreo. Non ha occhi un ebreo? Non
ha mani, un ebreo, organi, membra, sensi, affetti, passione? Non è nutrito
dallo stesso cibo, ferito dalle stesse armi, assoggettato alle stesse malattie,
curato dagli stessi rimedi, riscaldato e raffreddato dallo stesso inverno e
dalla stessa estate, come lo è un cristiano? Se ci pungete, non sanguiniamo? Se
ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate
un torto, non dovremmo vendicarci?» (3.1.49-56).
[S. Greenblatt, Vita, arte e
passioni di William Shakespeare, capocomico, Einaudi, Torino 2005, pp.
297-314, traduzione di C. Iuli]
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