martedì 10 giugno 2014

Francesco De Sanctis e Boccaccio

Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1971, pp. 314-330.

Se ora apri il Decamerone, letta appena la prima novella, gli è come un cascar dalle nuvole e un domandarti col Petrarca: “Qui come venn'io o quando?”. Non è una evoluzione, ma è una catastrofe, o una rivoluzione, che da un dì all'altro ti presenta il mondo mutato. Qui trovi il medio evo non solo negato, ma canzonato.   Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi secoli, con questa differenza, che il Molière te ne fa venire disgusto e ribrezzo, con l'intenzione di concitare gli uditori contro la sua ipocrisia, dove il Boccaccio ci si spassa con l'intenzione meno d'irritarti contro l'ipocrita che di farti ridere a spese del suo buon confessore e de' creduli frati e della credula plebe. Perciò l'arma del Molière è l'ironia sarcastica; l'arma del Boccaccio è l'allegra caricatura. Giovanni Boccaccio sotto un certo aspetto fu il Voltaire del secolo decimoquarto.  
Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono ch'egli guastò e corruppe lo spirito italiano. Egli medesimo in vecchiezza fu preso dal rimorso e finì chierico, condannando il suo libro. Ma quel libro non era possibile, se nello spirito italiano non fosse già entrato il guasto, se “guasto” s'ha a dire. Ove le cose, di cui ride il Boccaccio, fossero state venerabili, poniamo pure ch'egli avesse potuto riderne, i contemporanei ne avrebbero sentita indignazione. Ma fu il contrario. Il libro parve rispondere a qualche cosa che volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime, parve dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel loro segreto, e fu applauditissimo. Il Boccaccio fu dunque la voce letteraria di un mondo, quale era già confusamente avvertito nella coscienza. C'era un segreto: egli lo indovinò, e tutti batterono le mani. Questo fatto, in luogo d'essere maledetto, merita di essere studiato. 
Il carattere del medio evo è la trascendenza, un dì là oltreumano ed oltrenaturale, fuori della natura e dell'uomo, la perfezione e la virtù fuori della vita, la legge fuori della coscienza, lo spirito fuori del corpo, e lo scopo della vita fuori del mondo. L'ascetismo era il frutto naturale. La vita quaggiù perdeva la sua serietà e il suo valore. L'uomo dimorava con lo spirito nell'altra vita. E la cima della perfezione fu posta nell'estasi, nella preghiera e nella contemplazione.  Così nacque la letteratura teocratica, così nacquero le leggende, i misteri, le visioni, le allegorie: così nacque la Commedia, il poema dell'altra vita. Il pensiero non aveva intimità, non calava nell'uomo e nella natura, ma se ne teneva fuori, tutto intorno alla natura e alle qualità degli enti, che erano le stesse forze umane e naturali sciolte dall'individuo ed esistenti per sé stesse. Le astrazioni dello spirito divennero esseri viventi. Come il mondo scolastico fu popolato di esseri astratti, così il mondo poetico fu popolato di esseri allegorici, l'uomo, l'anima, la donna, l'amore, le virtù, i vizi. Il sentimento, come frutto di inclinazioni umane e naturali, era peccato. Le passioni erano scomunicate. La poesia era madre di menzogne. Il teatro cibo del diavolo. Il sentimento, reietto come senso e costretto ad esser ragione, strappato dal cuore umano, divenne anch'esso un universale, un fatto esteriore, ora simbolico, ora scolastico. Il padre de' sentimenti, l'amore, divenne un fatto filosofico, forza unitiva. Così nacque la lirica platonica, dal Guinicelli al Petrarca. Il senso e l'immaginazione si ribellavano contro questo platonismo. Ed è in questa ribellione, ancoraché poco scrutata e poco accentuata, che è la grandezza della lirica petrarchesca. Rappresentare i moti del cuore e della immaginazione nella loro naturalezza e intimità era vietato. E colui che più gustò di questo frutto proibito, fu il Petrarca.   L'immaginazione era un istrumento dell'intelletto, destinata a creare forme e simboli di concetti astratti. Lo sa il povero Dante. Nessuno ebbe mai l'immaginazione così torturata. E nacquero forme simboliche e intellettuali, nella cui generalità scomparve l'individuo con la sua personalità. Erano forme tipiche, generi e specie, anziché l'individuo. La regina delle forme, la donna, non poté sottrarsi a questa invasione degli universali, e rimase un ideale più divino che umano, bella faccia, ma faccia della sapienza, più amata che amante, e amata meno come donna che come scala alle cose celesti. Così nacquero Beatrice e Laura. Certo, a nessuno è lecito parlare con poca riverenza di questo mondo dell'autorità che segna un momento interessantissimo nella storia dello spirito umano, e che ha pure il suo fondamento nella vita. Questa elevazione dell'anima in se stessa, e al di sopra de' limiti ordinari della vita reale, è il lato eroico dell'umanità. Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e i piaceri, è degno di stima.   Ma è uno stato di tensione e di disquilibrio che non può aver durata. L'arte, la coltura, la conoscenza e l'esperienza della vita lo modificano e lo trasformano.   L'arte, impossessandosi di questo mondo, lo umanizza, lo accosta all'uomo e alla natura, lo mescola di altri elementi, vi fa penetrare le passioni e i furori del senso. Non ci hai ancora equilibrio; non ci hai qualche cosa che sia la vita nella sua intimità, insieme paradiso e inferno; ma già di rincontro al paradiso hai l'inferno, di rincontro a Beatrice hai Francesca da Rimini. Nel Canzoniere quel mondo si spoglia pure le sue forme natie, teologiche, scolastiche, allegoriche, e prende aspetto più umano e naturale. Ma già quel mondo nel Canzoniere non ha più il calore dell'entusiasmo e della fede. Il sentimento religioso, morale, politico vive fiaccamente nella coscienza del poeta; e il posto rimasto vuoto è occupato dall'arte. Questo infiacchirsi della coscienza, questo culto della bella forma fra tanta invasione di antichità greco-romana sono i due fatti caratteristici della nuova generazione, che succede all'età virile e credente e appassionata di Dante. Quegli uomini non si appassionano più per le dottrine, e non cercano il vero sotto i “versi strani”; la “bella veste” li appaga. I loro studi non hanno più a guida l'investigazione della verità, ma l'erudizione: c'è il sapere per il sapere. Ci sono ancora gli scolastici, che chiamano il Petrarca un insipiente, ma le loro querele si sperdono nel plauso universale, che pone il Petrarca accanto a Virgilio . La coltura e l'arte sono i nuovi idoli dello spirito italiano.  
Giovanni Boccaccio, nato il 1313, nove anni dopo il Petrarca e otto prima della morte di Dante, “non pienamente avendo imparato grammatica”, come scrive Filippo Villani, “volendo e costringendolo il padre per cagione di guadagno, fu costretto ad attendere all'abbaco, e per la medesima cagione a peregrinare”. Il padre era un mercante fiorentino, e alla mercatura indirizzò il figlio. Quando i giovani appena cominciavano i loro studi nella università, il nostro Giovanni faceva, come si direbbe oggi, il commesso viaggiatore in servigio del padre, e il suo libro era la pratica e la conoscenza del mondo. Girando di città in città, si mostrava più dedito alle piacevoli letture e a' passatempi che all'esercizio della mercatura, e più uomo di spirito e d'immaginazione che uomo d'affari.  Venuto in Napoli a ventitrè anni, menava vita signorile, bazzicava in corte, usava co' gentiluomini, spendeva largamente, amoreggiava, scribacchiava, leggicchiava. Dicesi che alla vista della tomba di Virgilio rimase pensoso e sentì la sua vocazione poetica. Fatto è che il buon padre, visto che non se ne potea cavare un mercante, pensò farne un giureconsulto, e lo mise a studiare i canoni, con gran rincrescimento del giovane, che chiama sciupato il tempo messo a fare il mercante e ad imparare i canoni. Finalmente, libero di sé, si gittò agli studi letterari, e come portava il tempo, si die' al latino e al greco, e si empì il capo di mitologia e di storia greca e romana. Ei menava la vita, mezzo tra gli studi e i piaceri, spesso viaggiando, non più a mercatare, ma a cercar manoscritti. Il Petrarca non era ancora comparso sull'orizzonte: tutto era pieno di Dante, e tra' suoi più appassionati era il nostro poeta. Frutto della sua ammirazione fu la Vita di Dante, uno de' suoi lavori giovanili. Ma egli poteva ammirarlo, non comprenderlo, perché lo spirito di Dante non era in lui. Formatosi fuori della scuola, alieno da ogni seria coltura scolastica e ascetica, profano anziché mistico ne' sentimenti e nella vita, si foggiò un Dante a sua immagine. Chi vuol conoscere le opinioni e i sentimenti del nostro giovane, legga quel libro e vi troverà già la stoffa, da cui uscì il Decamerone. Nessuna originalità e profondità di pensiero, nessuna sottigliezza di argomentazione; tutto vi è dimostrato, anche le più comuni verità, ma il fondamento della dimostrazione non è nell'intelletto, è nella memoria; non hai innanzi un pensatore, né un disputatore, ma un erudito. Vuol mostrare l'ingratitudine di Firenze verso Dante, ed ecco uscir fuori Solone, “il cui petto uno umano tempio di divina sapienza fu reputato”, e la Siria, la Macedonia, la greca e la romana repubblica, e Atene, e Argo, e Smirne, e Pilos, e Chios, e Colofon, e Mantova, e Sulmona, e Venosa, e Aquino. “Tu sola, ” conchiude il poeta “quasi i Cammilli, i Publicoli, i Torquati, Fabrizi, Catoni, Fabi, Scipioni ... in te fossero, ... avendoti lasciato il tuo antico cittadino Claudiano cader dalle mani, non hai avuto del presente poeta cura, ma l'hai da te scacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del tuo soprannome”. Volendo parlar di Dante, comincia ab ovo, dalla prima fondazione di Firenze. Spesso lascia lì Dante ed esce in lunghe digressioni, tra le quali è notabile quella sulla natura della poesia. Secondo lui, il linguaggio poetico fu trovato per porgere “sacrate lusinghe” alla divinità, con parole lontane “da ogni altro plebeo e pubblico stile di parlare” e “sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse e cacciassesi il rincrescimento e la noia”. I poeti imitarono “dello Spirito santo le vestigie”, perché come nella divina Scrittura, “la quale teologia appelliamo, quando con figura di alcuna storia, quando col senso di alcuna visione”, si mostra l'“alto mistero della Incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa ... così i poeti, ... quando con finzioni di vari iddii, quando con trasmutazioni di uomini in varie forme, quando con leggiadre persuasioni ne dimostrano le cagioni delle cose e gli effetti delle virtù e de' vizi”. Poi spiega ciò che lo Spirito santo volle mostrare nel rogo di Mosè, nella visione di Nabuccodonosor, nelle lamentazioni di Geremia; e ciò che i poeti vollero mostrare in Saturno, Giove, Giunone, Nettuno e Plutone e nelle trasformazioni di Ercole in dio e di Licaone in lupo, e nella bellezza degli Elisi e nell'oscurità di Dite. E ribattendo quelli che chiamano i poeti antichi “uomini insensati”, inventori di favole “a niuna verità convenienti”, conclude che “la teologia e la poesia quasi una cosa si posson dire”, anzi che la “teologia niun'altra cosa è che una poesia d'Iddio” e “poetica finzione”. L'erudito poeta non si arresta qui, e ci regala la favola di Dafne, amata da Febo e in lauro convertita, per darci spiegazione perché i poeti avevano la corona d'alloro. Di quello che fu il mondo interiore di Dante, qui non è alcun vestigio; invece il mondo esterno vi è sviluppato fino all'aneddoto, fino al pettegolezzo. Ci si vede uno spirito curioso e profano che cerca il maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani, disposto a spiegarli con la superficialità di un erudito e di un uomo di mondo, o “del secolo”, come si diceva allora. Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra un sogno attribuito alla madre di Dante e vi fa pompa di tutta la sua erudizione. Sotto il suo sguardo profano Beatrice perde tutta la sua idealità, e l'amore di Dante, scacciato dalle sue regioni ascetiche e platoniche e scolastiche, acquista una tinta romanzesca. Il nostro Giovanni non si fa capace come Dante a nove anni abbia potuto amare Beatrice. Il caso gli pare strano, e ne cerca diverse spiegazioni. Forse fu “conformità di complessioni o di costumi”; forse anche “influenza da cielo”. Ma queste spiegazioni non lo appagano, e si ferma in quest'altra, che cava dall'esperienza. Dante, secondo lui, vide Beatrice in una festa il primo di maggio, quando la “dolcezza del cielo riveste dei suoi ornamenti la terra, e tutta per la varietà de' fiori mescolati tra le verdi fronde la fa ridente, e per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la generale allegrezza, per la delicatezza de' cibi e de' vini, gli animi eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti ampliarsi e divenire atti a poter leggermente esser presi da qualunque cosa che piace”.  Dante dunque amò fanciullo per la stessa ragione che può amare un uomo maturo; i cibi e i vini delicati e l'allegrezza generale, ecco ciò che dispose il suo animo all'amore. Beatrice era per Dante “angeletta bella e nova”, senza contorni e senza determinazioni scesa di cielo a mostrare le bellezze e le virtù che le piovono dalle stelle. Tutto questo non entra al Boccaccio, il quale vuol pure spiegarsi come la potè parere un'angioletta, e si foggia nella profana immaginazione una bella immagine di fanciulla, e la descrive così: 
 “Assai leggiadretta secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste che 'l suo picciolo tempo non richiedeva; ed oltre a questo, aveva le fattezze del volto dilicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi un'angioletta era reputata da molti.”  Ecco un'angioletta di carne; eccoci dalle mistiche altezze di Dante caduti in piena fisiologia e notomia. Dante amò, perché tra vivande e sollazzi l'animo è disposto ad amare; e Beatrice parea quasi un'angioletta, perché era fatta così e così. Beatrice muore a ventiquattro anni. Il nostro biografo non se ne maraviglia, perchè “un poco di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo, ... ci conduce” alla morte. I parenti e gli amici per consolare Dante gli diedero moglie:  “Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti!”, esclama il nostro scapolo e nemico dell'amore regolato. “Qual medico” egli aggiunge   “s'ingegnerà di cacciare l'acuta febbre col fuoco, o 'l freddo delle midolla delle ossa col ghiaccio o colla neve?”.  

E qui da uomo esperto della materia parla della natura e de' fenomeni dell'amore e dell'indole delle donne, e delle noie e degli affanni de' mariti, e compiange il povero Dante. Dipinge con tocchi sicuri, e in certi punti è eloquente, perché qui è in casa sua. Udite questo periodo: “Possiamo pensare quanti dolori nascondono le camere, li quali da fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacia trapassa le mura, sono riputati diletti”. Ma Dante, secondo ch'egli narra, dimenticò presto moglie e Beatrice, e si die' all'amore delle donne: ciò che l'indusse al gran viaggio nell'altro mondo, ove se ne fece così aspramente rimproverare da Beatrice. Il quale amore non pare poi un così gran peccato al nostro scapolo: “Chi sarà tra' mortali giusto giudice a condannarlo? Non io”. Ed ecco venire innanzi l'erudito, e citare parecchi casi di uomini illustri vinti dalle donne, Giove, Ercole, Paride, Adamo, Davide, Salomone, Erode. Ti par di assistere a una parodia. Eppure niente è più serio. Il giovane è pieno di ammirazione verso Dante che chiama un “iddio fra gli uomini”, e crede con questa Vita riparare alla ingratitudine di Firenze e alzargli un monumento.  La Vita di Dante è una rivelazione. Qui dentro si manifesta l'autore in tutta la sua ingenuità e spontaneità: vi trovi il nuovo uomo che si andava formando in Italia. Mette in un fascio mondo sacro e profano, Bibbia e mitologia, teologia e poesia: la teologia è una “poesia di Dio”, una “finzione poetica”. Questa strana mescolanza era già comune al secolo; Dante stesso ne dava esempio. Ma dove Dante tirava il mondo antico nel circolo del suo universo e lo battezzava, lo spiritualizzava, il Boccaccio sbattezza tutto l'universo e lo materializza. In teoria ammette la religione, e parla con riverenza della teologia, che ci fa conoscere “la divina essenza e le altre separate intelligenze”. Ma in pratica questo mondo dello spirito rimane perfettamente estraneo alla sua intelligenza e al suo cuore. Misticismo, platonicismo, scolasticismo, tutto il mondo dantesco, non ha alcun senso per lui. Non solo questo mondo gli rimane estraneo come coltura, ma ancora più come sentimento. Spento è in lui il cristiano, e anche il cittadino. Non gli è mai venuto in mente che servire la patria e dare a lei l'ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto, come è il provvedere al proprio sostentamento. Dietro al cittadino comincia a comparire il buon borghese, che ama la sua patria, ma a patto non gli dia molto fastidio, e lo lasci attendere alla sua industria, e non lo tiri per forza di casa o di bottega. De' guelfi e ghibellini è perduta la memoria, tanto che il Boccaccio crede doverne spiegare il significato. E non si persuade come Dante siesi potuto mescolare nelle pubbliche faccende, e ne reca la cagione alla sua vanità, ed ha quasi l'aria di dirgli: - Ben ti sta. - Non voglio dire con questo che il Boccaccio fosse uomo dispregiatore della religione o della virtù o della patria. Sciolto era di costumi, pure tutti i doveri comuni della vita li adempiva con la stessa puntualità e diligenza degli altri, e molte legazioni gli furono commesse da' suoi concittadini. Ma l'età eroica era passata; la nuova generazione non comprendeva più le lotte e le passioni de' padri; il carattere era caduto in quella mezzanità che non è ancora volgarità, e non è più grandezza; della religione, della libertà, dell'uomo antico c'erano ancora le forme, ma lo spirito era ito. L'erudizione, l'arte, gli affari, i piaceri costituivano il fondo di questa nuova società borghese e mezzana, della quale ritratto era il Boccaccio, gioviale, cortigiano, erudito, artista. Se la malinconia dell'estatico Petrarca ti presentava un simulacro dell'uomo antico, la spensierata giovialità del Boccaccio è l'ingresso nel mondo, a voce alta e beffarda, della materia o della carne, la maledetta, il peccato; è il primo riso di una società più colta e più intelligente, disposta a burlarsi dell'antica.   Questo tempo fu detto di transizione. Vivevano insieme nel seno degli uomini due mondi, il passato nelle sue forme se non nel suo spirito, ed un mondo nuovo che si affermava come reazione a quello, fondato sulla realtà presa in se stessa e vuota di elementi ideali. Erano in presenza il misticismo, con le sue forme ricordevoli del mondo soprannaturale, e il puro naturalismo. Ma il misticismo, indebolito già nella coscienza, era divenuto abituale e tradizionale, applaudito nel Petrarca non come il mondo sacro, ma come un mondo artistico e letterario. Il naturalismo al contrario sorgeva allora in piena concordia con la vita pratica e co' sentimenti, con tutti gli allettamenti della novità. Questo mutamento nello spirito dovea capovolgere la base della letteratura. Il romanzo e la novella, rimasti generi di scrivere volgari e scomunicati, presero il sopravvento. Al mondo lirico, con le sue estasi, le sue visioni e le sue leggende, il suo entusiasmo, succede il mondo epico o narrativo, con le sue avventure, le sue feste, le sue descrizioni, i suoi piaceri e le sue malizie. La vita contemplativa si fa attiva; l'altro mondo sparisce dalla letteratura; l'uomo non vive più in ispirito fuori del mondo, ma vi si tuffa e sente la vita e gode la vita. Il celeste e il divino sono proscritti dalla coscienza, vi entra l'umano e il naturale. La base della vita non è più quello che dee essere, ma quello che è: Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro.  

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