“Lessico famigliare
mi ha sempre perseguitato”, Anna Foa racconta Natalia Ginzburg
A
cinquant'anni del premio Strega, la storica ricorda come quel libro abbia
raccontato la vita della sua famiglia e come la scrittrice si sia convertita al
cattolicesimo
“Pretenziosa e
sarcastica”: è con questi due aggettivi che in Lessico famigliare
Natalia Ginzburg la immortala. Allora Anna Foa era solo una bambina, oggi è una
storica affermata (di recente ha pubblicato per Laterza Portico d’Ottavia
13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43). Ma già a quel tempo
Anna – racconta la Ginzburg – discuteva con la madre di “Gesù e Stalin”.
In quel romanzo, che
cinquant’anni fa vinse il premio Strega, c’è tutto il mondo dell’infanzia della
figlia del politico, giornalista e scrittore Vittorio Foa: l’antifascismo, la
cospirazione, le amicizie, i litigi, gli amori. E rimane fondamentale,
soprattutto perché – spiega a Donneuropa la professoressa Foa – ha
“raccontato l’unica aristocrazia intellettuale italiana, contribuendo alla sua
mitizzazione”.
Che effetto fa
ritrovarsi in un romanzo che è entrato nella storia della letteratura italiana?
Lessico famigliare mi ha sempre
perseguitato. Quando uscì, un giovane professore del mio liceo classico lo
lesse e cominciò a prendermi in giro in classe, apostrofandomi con i due
aggettivi con i quali mi descriveva la Ginzburg, “pretenziosa e sarcastica”.
Natalia mi aveva conosciuta quando ero piccolissima. Lei era molto amica sia di
mia madre sia di mio padre, con il quale però il rapporto si consolidò
successivamente.
Con sua madre, Lisa Giuia, com’era nata l’amicizia?
Era nata dalla comune
adesione agli ideali dell’antifascismo e della Resistenza. Il gruppo di
Giustizia e Libertà di Torino era stato in gran parte imprigionato. Il marito
di Natalia, Leone Ginzburg, fu mandato al confino, dove Natalia lo seguì. Mia
madre invece la Resistenza l’aveva fatta in prima persona. Lei e Natalia si
vedevano e si frequentavano, come viene raccontato in Lessico famigliare.
La narrazione nel romanzo corrisponde ai suoi
ricordi?
Gli episodi che Natalia
racconta sono probabilmente veri, ed è sicuramente vero quello che dice della
mia famiglia: per quanto posso testimoniare e ricordare, le cose stavano
proprio così. Per esempio il ritratto che fa di mia madre corrisponde
esattamente alla realtà. Certo, è possibile che io ricordi quel tempo
attraverso il filtro di Lessico famigliare. Però credo che Natalia abbia
rielaborato in maniera molto fedele, anche se con un linguaggio proprio, la
vita di un intero mondo intellettuale e politico.
Invece il rapporto con suo padre, Vittorio,
viene costruito dopo.
Natalia ovviamente
conosceva mio padre già molto prima. Però il loro rapporto si è consolidato
negli anni Ottanta, diventando anche molto intenso. Si sentivano al telefono
ogni mattina alle sette, e quando Natalia diventò deputato del Partito
comunista, la conversazione serviva a chiarire cosa lei dovesse fare in
parlamento. Mio padre sosteneva che Natalia di politica “non capiva niente”.
Si trovavano d’accordo?
Tra loro due ci fu uno
scontro quando si trattò di cambiare nome al Pci. Natalia voleva assolutamente
che rimanesse identico, invece mio padre, cui piaceva molto mostrare di saper
guardare avanti, sosteneva che fosse necessario cambiarlo.
Il suo rapporto con la Ginzburg invece com’era,
Anna?
Ho parlato varie volte
con Natalia di religione. All’epoca cominciavo ad avvicinarmi all’ebraismo e lei
era molto incuriosita da questo mio percorso. Parlavamo a lungo, anche se
Natalia non si scopriva mai molto. Io le spiegavo il mio punto di vista, e cioè
che l’ebraismo non prevedesse un’insistenza sulla fede in Dio, perché
l’appartenenza, la ritualità, sono molto più importanti e centrali di Dio e
della fede – tanto è vero che la parola fede, nell’ebraismo, non esisteva
nemmeno sino al medioevo… E lei mi domandava: “Ma come può non essere la stessa
cosa l’ebraismo e la fede in Dio?”
Convinse la Ginzburg a seguirla
nell’avvicinamento all’ebraismo?
No, nemmeno volevo
farlo, d’altronde. Ne parlavamo, lei mi sembrava incuriosita. E infatti rimasi
molto colpita quando scoprii che si era convertita al cattolicesimo.
Come l’ha scoperto?
Perché Natalia ebbe un funerale
cattolico. E ciò significa che lo richiese. Certo, è vero che Natalia era
figlia di una madre non ebrea, e secondo la legge si è ebrei solo se si nasce
da madre ebrea. Natalia però aveva questa oscillazione, l’inquietudine di chi
appartiene a entrambi i mondi, anche se sua madre non aveva ricevuto
un’educazione cattolica. Secondo me, Natalia aveva pochissimo di cattolico
nella sua scrittura, nel suo modo di essere. Probabilmente, come mi disse mio
padre, si era convertita soltanto per sposarsi con il suo secondo marito,
Gabriele Baldini. La mia sensazione è che lei non avesse una fede, ma ne fosse
molto attratta. Però, ripeto, so pochissimo di cosa lei sentisse. E anche la
conversione, il funerale religioso, di per sé significano pochissimo.
Perché secondo lei, da storica, Lessico
famigliare è un libro che è rimasto?
Lessico famigliare racconta l’unica
aristocrazia che abbiamo in Italia. O meglio, in quel romanzo essa viene
esplicitamente raffigurata come un’aristocrazia: il mondo degli intellettuali
torinesi, un universo che ha rappresentato molto dal ’63 in poi, affascinando
generazioni e generazioni di persone. Penso che l’impatto che questo romanzo ha
avuto sia assolutamente anomalo rispetto a ciò che è: un libro di memorie, sia
pure scritte in maniera straordinariamente nuova.
Come si spiega la sua permanenza, allora?
Come si spiega la sua permanenza, allora?
Secondo me, Lessico
Famigliare ha rivelato a un’Italia che aveva bisogno di miti un mondo che
aveva tutte le caratteristiche per essere mitizzato.
Non era già di per sé un mondo mitico?
Non prima di quel libro.
Il fascino degli intellettuali torinesi antifascisti si costruisce a partire da
Lessico famigliare. Sì, c’era già stato Primo Levi, però le memorie di
Natalia consolidano definitivamente l’importanza di quel mondo. E per questo
ancora oggi siamo qui a parlarne.
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